Al cine vacci tu
Non avevo ancora visto il Giro quest’anno; anzi, devo ammettere che da molti anni ormai lo guardo sempre meno, tra impegni lavorativi crescenti e qualità ciclistiche decrescenti. Eppure, in questi due giorni di montagna mi ci sono dato, nelle pause tra un lavoro e l’altro, e ieri ne sono stato completamente rapito.
La tappa di ieri rispondeva all’improbabile nome di Scalenghe – Briançon, un po’ come un Cavese – Manchester United che arrivasse sì all’Old Trafford, ma partisse dal Lamberti di Cava de’ Tirreni. Breve, ma epica, prevedendo due cime leggendarie come il colle dell’Agnello e l’Izoard. Ed epica è stata, con un approccio a velocità pazzesca a lasciare subito tutti sulle gambe, e un equilibrio incredibile tra i cinque, sei corridori sopravvissuti. Con tutte le canoniche storie e storielle a punteggiarla, e il gregario Piepoli che tira alla morte per cinquanta chilometri per il suo capitano e poi scoppia, e Garzelli che resiste coi denti sulle strade della sua ultima grande vittoria, senza più Pantani a fargli l’andatura, e Savoldelli che da un anno preparava la tappa e ieri è scivolato sulle strisce e gli fa male, e mentre scivola sempre più indietro gli viene da piangere e quasi da mollare la bici lì in mezzo a un prato; e i vecchi francesi in fuga di giornata, e i giovani che reggono e stupiscono tutti.
Alla fine, Simoni è il fesso di sempre e vince Di Luca. Il rilevante, però, è che si verifica proprio quel miracolo senza tempo di cui canta il Paolo Conte del periodo migliore, e i francesi che s’incazzano, e i giornali che svolazzano; e tutti noi che avremmo altro da fare, ma non riusciamo a smettere di guardare: forse avremmo da andare al cine, ma al cine vacci tu. Perchè non si spiegherebbe altrimenti come, nell’anno del Signore duemilaesette, ci siano ancora migliaia e migliaia di persone che si inerpicano sulle pietraie alpine con ogni mezzo possibile – poche auto, parecchi camper, una infinità di biciclette da corsa e se no, signori, a piedi – per accamparsi per uno o più giorni sul ciglio di una strada, solo per gridare “Alé” per una frazione di secondo, quando passa il primo della lista; e poi ancora “Alé” quando passano il secondo, il terzo e giù giù fino all’ultimo, che a differenza dei campioni è un onesto impiegato che guadagna al più come un vicedirettore di filiale bancaria, ma si tira su una bici a trenta all’ora per duemilacinquecento metri di dislivello, per poi riportarla giù a novanta all’ora e a pochi centimetri dalla roccia, e poi ancora su per altri mille metri abbondanti.
Sì, anche il ciclismo, come altri sport secondari al calcio ma non minori, ti può permettere di eliminare un po’ di fame e raccogliere un po’ di fama; ma non certo in modo tale da giustificare la fatica assurda che (doping o non doping, che la bici comunque non si muove da sola) si compie in questo sport; paragonabile probabilmente solo alla maratona, però a una maratona fatta tutti i giorni per tre settimane. Come nella maratona, la forza fisica è relativa, e sono molto più importanti la testa, la tattica, la capacità di sfruttare quelle risorse misteriose che gli esseri umani trovano soltanto nelle situazioni disperate o nelle sfide contro se stessi.
Da Scalenghe a Briançon, potevano comodamente arrivare in macchina in un’oretta. Farlo in cinque ore su una bici, passando per il percorso più lungo e arduo possibile, è chiaramente masochismo. Dev’essere per questo – per questo senso di sfida sbruffona e insensata, però mai rimangiata, e sempre regolarmente portata a termine a prezzo di grandi sacrifici – che il ciclismo è uno sport eccezionale.