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Archivio per il mese di Maggio 2007


domenica 13 Maggio 2007, 17:28

Una domenica impazzita

Eraldo Pecci, uno dei grandi giocatori del Toro dello scudetto, disse che tifare Toro è un po’ come masturbarsi con la sabbia: fa un male cane, ma prima o poi godi. Ecco, oggi è la giornata in cui si gode: il Toro è ancora tutt’altro che salvo, ma vincendo incredibilmente 1-0 in casa della seconda squadra più forte d’Italia – dopo una stagione passata a perdere in casa con la Reggina e con il Siena – è passato da una condanna quasi certa a buone possibilità di salvarsi.

Io, come sapete, sono in California, e ho dovuto mettere la sveglia alle cinque e cinquantacinque del mattino, cercando poi disperatamente uno streaming qualsiasi, di una radio, di una trasmissione TV che commenti le partite, di qualche cosa. Nulla: la Rai non si sente, GRP nemmeno, niente di niente. E così, mi sono accontentato del “tempo reale” del sito della Gazzetta, e soprattutto della webcronaca collettiva sul forum di Forzatoro.

Seguire una partita dalla webcronaca, se non si ha in parallelo la televisione o la radio, è allucinante. Sono pochissimi quelli che raccontano cosa succede: più che altro ci sono commenti, incitamenti, persino cori per iscritto. Si è sempre in ansia, pigiando sul tasto del reload, e attendendosi di veder comparire d’improvviso, senza annunci preventivi, una notizia buona o una ferale.

In questo caso, poi, è stata sofferenza vera: perché il Toro ha segnato all’inizio su un errore degli avversari, e poi, ovviamente, ha passato il resto della partita a difendersi dagli attacchi incessanti della Roma, che si sono fatti via via più intensi. E così, ti vedi apparire una scritta come “punizione di totti”, e poi niente per trenta secondi, col fiato sospeso, finchè qualcun altro non scrive “barrieraaaa!!!” e puoi respirare.

Nel frattempo arrivano le notizie dagli altri campi, il biscottone annunciato di Siena – in settimana Cagni, allenatore dell’Empoli quinto in classifica, aveva annunciato di temere i senesi, una squadra derelitta che in venti partite aveva vinto solo con noi, e di vedere il Toro già in B: puntuale è arrivata la vittoria del Siena sull’Empoli – e il biscottone inevitabile di Reggio, dove una sconfitta avrebbe mandato in B il perdente, per cui era ovvio che ci si accontentasse di un punto a testa.

Ma non importa, la sofferenza è tutta sul nostro campo, dove piano piano il secondo tempo si trasforma in un assedio, e le occasioni si infittiscono. Gli ultimi venti minuti sono un delirio, Abbiati inanella miracoli, Ogbonna combina disastri in fila, la Roma prende due traverse e varie punizioni e tiri fuori di poco. Si cominciano a contare i minuti, si cerca di resistere, ci si fa forza con qualche battuta e con qualche incitamento. Ogni minuto è un brivido, un’occasione salvata, un infarto mancato; finchè al 93′ la Roma prende ancora un palo, e saltano i nervi: metà di noi comincia a piangere, chi invocando gli angeli custodi, chi contando i secondi, finchè la partita non finisce, ed è una liberazione; la classica vittoria di cuore e di fiducia.

Di partite del Toro ne ho sofferte infinite, ma mai una così, a mezzo pianeta di distanza davanti a un albergo, nel silenzio della domenica mattina, con la sciarpa al collo e davanti a me solo un monitor e un po’ di compagni di sofferenza sparsi dappertutto. Grazie, è stato bellissimo. Non siamo ancora salvi, può ancora andar male, ma questa domenica non la dimenticherò tanto presto.

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domenica 13 Maggio 2007, 05:58

Gli americani sì che sanno

Il mio albergo, nonostante abbia una vista che dà nientepopodimenoché sull’autostrada 101, è un hotel a cinque stelle di quelli americani: solo per bianchi e per saltuari neri arricchiti. E’ un hotel talmente lussuoso che la camera è grande come un appartamento, con un bagno di marmo che ha sia la doccia che la vasca, separate. E’ un hotel talmente fine che a colazione non c’è un volgare buffet, ma ti siedi al tavolo come al ristorante, e viene un cameriere a chiederti come vuoi le tue uova oggi (due uova e due fettine di bacon, quattordici dollari).

Un hotel così fine non può non avere i suoi house organ. C’è una rivista che sembra For Men, piena zeppa di pubblicità di auto di lusso (per lui) e vestiti di lusso (per lei), con modelle anoressiche che sfoggiano Prada e servizi sulle Bugatti Veyron; e la pubblicità di Loro Piana che vanta maglioni di cashmere fatti con la lana degli agnellini. E poi, c’è una rivista di cucina, che intervista i migliori chef del mondo.

In questo numero, c’è l’intervista a una presunta cuoca friulana, ritratta insieme alla figlia, che dovrebbe darle consigli storiografici. Oddio, a vedere la foto, sembrano due tipe dell’Arkansas, un po’ strappone; e allora viene qualche sospetto. Infatti, vado avanti a leggere, e mi trovo davanti a una sconcertante dichiarazione: il piatto presentato ha tre componenti, che secondo la cuoca sarebbero stati scelti in onore delle tre contee della sua regione.

Ora, che si possa parlare di contee in Italia è quanto meno strano, ma quali sono le tre contee del Friuli-Venezia Giulia? Beh, è chiaramente spiegato nel resto dell’articolo: sono Friuli, Venezia e Giulia. Ah, beh: scemi noi che non ci eravamo arrivati da soli.

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sabato 12 Maggio 2007, 08:50

Google

Non mi hanno lasciato fare foto all’interno, solo all’esterno, e quindi per la maggior parte delle cose dovrete accontentarvi della descrizione a voce. Certo che la mezz’oretta di visita alla sede di Google sfida tutte le logiche sul lavoro d’ufficio che noi europei abbiamo bene in testa.

Google sta a Mountain View, in un insieme di edifici di due-tre piani a metà tra la fabbrica ristrutturata e il cubo di vetro e metallo, che erano precedentemente occupati da SGI, e che si estendono per alcune centinaia di metri attorno a un giardino centrale. In questi uffici, SGI aveva quattrocento persone; Google ne ha circa novecento. Ma non è perchè pigi le persone: è perchè Google ha abolito il concetto di ufficio individuale, con la porta, la scrivania, il ficus benjamin e il telefono per chiamare Fantozzi. Per rimarcare la cosa, hanno persino riciclato le vecchie porte appendendole in alto sulla parete dell’atrio, penzolanti sul vuoto, come decorazione e memento.

All’interno degli uffici, quindi, ci sono soltanto open space oppure sfilze di cubicoli liberi e micro-sale riunione – io ne ho vista una fila denominata con i nomi dei linguaggi, inclusi persino Ocaml e Mathematica – che ognuno si può prendere quando ha voglia, lavorando ogni giorno in un posto diverso; oppure mettersi col portatile sulle scale di legno dell’atrio, sotto la Spaceship One di Paul Allen appesa al tetto, o nel giardino. Dopodichè, ci sono anche le sale riunione più grosse, e delle tende all’interno (appropriatamente denominate yurt) che possono ospitare i meeting.

Nei quattro edifici, poi, sono sparse una quindicina di “microkitchen”, di mense e di caffè, dove il cibo è gratuito, tranne quello insalubre; c’è abbondanza di frutta organica, parte della quale è coltivata in un mini-orto biologico nel giardino degli uffici. Non solo c’è cibo gratis 24 ore su 24, ma ogni impiegato può invitare qualcuno a cena due volte al mese. Oggi è “bagel day” (bagel gratis per tutti) e, a pranzo, “seafood day”.

E poi… c’è un sacco di altra roba. C’è uno scheletro di tirannosaurus rex (“il monumento al consiglio d’amminsitrazione di Silicon Graphics”) a cui qualche dipendente ha attaccato dei piccoli fenicotteri rosa per scherzare. C’è una biblioteca ad uso libero, con tanto di lego e costruzioni per chi ci vuole giocare. C’è un pianoforte a coda in un corridoio, con il cartello “per favore suonare solo dopo le ore d’ufficio”. C’è un campo di pallavolo tra i due edifici principali, ma anche i tavoli da ping pong. C’è una palestra sterminata, a libero uso dei dipendenti, aperta 24 ore su 24, con la possibilità di farsi fare massaggi per trenta dollari l’ora. C’è la piscinetta all’aperto, con un bagnino sempre in servizio. C’è il “venerdì auto”, in cui i dipendenti possono portare la macchina sul retro (non ci sono parcheggi vicini, per cui Google ha assunto dei valletti per parcheggiare le auto un po’ più in là) e far cambiare l’olio e farla lavare. C’è, appeso sopra ogni reception, un proiettore che manda le query che stanno venendo fatte sul motore di ricerca, due o tre per secondo, in tutte le lingue. Ci sono opere d’arte moderna, ma anche “progetti 20%” (come noto, ogni programmatore ha diritto a dedicare il 20% del proprio tempo a un progetto personale privo di scopo diretto, anche se alcuni di questi sono poi diventati Orkut o Google News) come un globo terrestre rotante in tre dimensioni dove la quantità di query provenienti da una determinata città è rappresentata con un fascio di luce che si proietta dalla Terra verso la galassia, più intenso se le query sono tante, e colorato a seconda della lingua.

Ok, non tutto è condivisibile: la paginetta di lezioncina su come testare il codice appesa sopra il pisciatoio è secondo me un po’ troppo; e, discretamente, c’erano guardie nerborute dovunque andassimo – insomma, probabilmente la libertà non è così assoluta come sembra a prima vistg. Tuttavia, questo posto trasuda di pensiero, di creatività, di intelligenza al lavoro. Non è un ufficio, è un happening, una manifestazione collettiva, una cosa viva a cui tutti sono orgogliosi di partecipare.

Ad essere onesti, questo genere di visite ravviva il pensiero che ogni tanto mi viene – e che è già venuto a parecchi, contando la quantità di amici brillanti ed espatriati – cioè, cosa ci faccio io ancora in Italia, alle prese con aziende sparagnine, commerciali viscidi, manager sfruttatori, raccomandati e corrotti vari, preti saccenti, politici incompetenti, fancazzisti ad oltranza, e un generale senso di stanchezza e disillusione. In fondo, l’Italia del Duemila è un capolavoro di mediocrità, di ottusità, di provincialismo. Non fosse che sono affezionato a Torino, non fosse che sono pigro, non fosse che vivere negli Stati Uniti non mi attira per nulla, passerei lo stramaledetto curriculum a Vint e andrei in un posto dove avrei davvero delle chance di combinare qualcosa.

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venerdì 11 Maggio 2007, 07:41

Ancora!

Metto a verbale che il momento in cui sono finalmente entrato in albergo risale a non più di dieci minuti fa: non so che ore siano in realtà, qui l’orologio dice le dieci e un quarto di sera. Essendo uscito di casa stamattina alle nove e mezza, se non sono ventiquattro ore di viaggio sono almeno ventidue.

Mi stupisco sempre di come faccia il corpo a resistere a questa innaturale giornata di trentatre ore; dopo un po’, il tempo semplicemente collassa, e si entra in un tunnel spaziotemporale dilatato indefinitamente. Ho anche lavorato, ho guardato The Pursuit of Happyness (decisamente meglio di come mi aspettavo, anzi complimenti a Will Smith che prende un polpettone dal messaggio dubbio – lui è infelice perchè non ha soldi, poi diventa ricco quindi è felice – e riesce a renderlo credibile e persino emotivamente coinvolgente; tuttavia, Smith è talmente mattatore che immagino abbiano preso Muccino solo perchè scrivere “regia del mio gatto Fuffi” pareva brutto).

La business class Lufthansa è una mezza delusione, anche se è sempre molto meglio che pigiarsi in economy. Ti mettono su una sedia motorizzata in ogni direzione, che quando ci sei sopra ti senti il protagonista della pubblicità delle auto che diventano robot; schiacci un bottone ed essa contemporaneamente si allunga, si allarga, si appiattisce e si gira per mettersi in posizione “relax”. Però, la presa di corrente non accetta prese tedesche (!); la presa Ethernet è finta; c’è il video on demand invece dei film a ciclo continuo, ma fa poca differenza, e poi l’action thriller di Bollywood con una figona senza senso era disponibile solo in hindi. Inoltre, il servizio del pranzo, che è circa lo stesso dell’economy ma servito con tovaglioli e cerimonie, dura come un matrimonio: a un certo punto volevo chiedere se almeno mi davano insieme lo ius primae noctis su una delle hostess.

Soprattutto, già a Caselle, causa due ore di ritardo del Torino-Francoforte, mi hanno dumpato in automatico sul Monaco – San Francisco di due ore dopo; io ho cercato di avvertire l’organizzazione di ICANN in vari modi, e pietendo la hostess lei è andata dal capitano col numero di cellulare austriaco di Roberto Gaetano, che è stato faxato alla torre di controllo, che gli ha telefonato e gli ha lasciato un messaggio in segreteria. Tutto inutile: a SFO, passata l’immigrazione e la dogana, non c’era nessuno ad attendermi.

Ora, cosa fareste voi se vi trovaste a SFO alle sette e mezza di sera, con in mano solo l’indicazione Four Seasons Hotel di Palo Alto? Beh, saltereste sul taxi; ma a me di far spendere a ICANN tra gli ottanta e i cento dollari di taxi non andava, e in più mi piacciono i treni. Così, mi sono fidato dei pannelli (lo scortesissimo bigliettaio mi ha persino diretto alla macchinetta automatica per fare i biglietti, che non aveva voglia di farlo lui) secondo cui con una fermata di Bart potevo poi, con cinque minuti di attesa, prendere il Caltrain fino a Palo Alto Centrale.

Mi sono così avvicinato incuriosito al Bart – che in The Pursuit of Happyness, che è ambientato nel 1981, si vede in quasi ogni scena – e pota, ho capito come hanno risparmiato sul film: ci sono ancora le stesse carrozze del 1981! E non le puliscono dal 1981! Noi ci lamentiamo dei nostri trasporti pubblici, ma dovreste vedere quelli americani. In più, ovviamente il mio treno aveva cinque minuti di ritardo: per cui mi son visto sfilare la coincidenza sotto il naso – mentre facevo il secondo biglietto alla macchinetta, che sono due società separate e ben si guardano dall’accordarsi, che poi sarebbe un cartello oligopolistico! – e ovviamente il treno della seconda compagnia mica aspetta la coincidenza con quello della prima, anzi se può parte più di corsa ancora, perchè la gente s’incazzi con gli altri per il ritardo. Quello successivo, ovviamente, era dopo soli 68 minuti.

Così, ho festeggiato il tramonto in un venticello tiepido che è poi divenuto una bora gelida, alla stazione d’interscambio di Millbrae. Ho preso il Caltrain, sono sceso a Palo Alto, e… oddio, di taxi neanche l’ombra! Non ho una mappa, non ho un indirizzo, sono in un parcheggio di periferia… qui butta maluccio. Vado alla fermata degli autobus per chiedere informazioni, ma della decina di presenti solo due parlavano anche inglese, tutti gli altri solo spagnolo, al massimo potevo chiedergli del coche fantastico.

Così mi sono diretto a piedi verso [Stanford] University Avenue, sperando di incocciare in un taxi. Ma ero talmente fuso che ho fermato due ragazzi per la strada per chiedere dove era una fermata dei taxi, e loro mi hanno fatto notare che ne avevo due a cinque metri da me… E però, questa è stata la nota positiva della giornata: perchè il tassista era nero e somalo, quindi amante degli italiani, e abbiamo passato il viaggio a sparlare degli Stati Uniti. Breaking news, i neri vivono di merda pure in California. Alla fine gli ho dato una mancia del cinquanta per cento, e sono entrato nel mio lussuosissimo alberghissimo dalla puzza sotto il naso, col ristorante finto italiano e gli stuoli di cameriere in divisa che negli occhi hanno l’inconsapevole palpito represso della rivoluzione che prima o poi verrà, quando sarà divenuto consapevole.

Nel frattempo, io vado a farmi la doccia e poi a letto senza cena: anche perchè, ad essere precisi, oggi ho comunque fatto una colazione, tre pranzi, una merenda e una cena, anche se sulla nomenclatura ci sarebbe da discutere. Buona… boh, quello che è lì da voi.

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giovedì 10 Maggio 2007, 00:20

Ancora?

Oggi sono di nuovo in viaggio, in aereo per San Francisco. E no, non è divertente.

Cioè sì, è fighissimo, ci vado per un meeting di ICANN, è ospitato da Google che ci farà anche fare un tour degli uffici (sì, ho chiesto se posso fare foto; sì, sto ancora schivando avvocati). E per fortuna avevo prenotato un volo sufficientemente tardo da poter essere domani sera per cena in Silicon Valley pur decollando domani mattina alle 10:55, il che vuol dire che domani non mi devo alzare alle quattro e mezza come al solito.

Però, in questo momento – quello in cui mi rilasso, dopo aver messo le ultime cose in valigia e prenotato il taxi – preferirei invece avere davanti cinque giorni per me, di eremitaggio a prendere il sole, leggere e riflettere fuori dal mondo e dalle beghe di ogni genere in mezzo a cui mi ficco; e, soprattutto, dormire.

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mercoledì 9 Maggio 2007, 21:21

Inferno

Ok, avrei potuto infilarmi sulle tangenziali invece di fare di nuovo il giro dei viali (stavolta quelli esterni, Cermenate compreso). Avrei potuto fare Pavia – Alessandria; ci ho pensato, ma per una forma di lealtà sono rimasto sulla vecchia autostrada. Però l’esperienza di oggi si avvicina discretamente all’idea che ho di un girone dantesco.

Non intendo offendere chi è nato a Milano o chi ci abita; ognuno è attaccato alla propria città. Io, però, esco da questi due giorni chiedendomi seriamente come ci si possa vivere. Probabilmente, una volta che ci si è dentro, ci si abitua e non ci si rende più conto di quanto male si viva a Milano, o quanto bene si viva in altre città del Nord Italia.

Per dire, il traffico è un problema normale. Ma che l’unico posto per parcheggiare per una notte l’auto non palesemente in divieto, nel raggio di un chilometro, sia su un marciapiede, è insensato. Che tu chieda in giro e tutti facciano tanto d’occhi all’idea che tu trovi strano parcheggiare su un marciapiede, anche. Dopodichè, al mattino ti vergogni, e hai l’idea brillante di spostare la macchina e parcheggiarla un paio di fermate di metro più giù, dove non si paga.

Lo fai, e nel frattempo scopri un altro brutto angolo di Milano, la zona di corso Lodi, viale Brenta e piazza San Luigi. Dove su vie laterali strettissime e dal percorso zigzagante (era tutta campagna, cosa costava fare delle vie dritte e larghe?) ci sono auto su entrambi i lati, più sui marciapiedi, se ci sono dei marciapiedi. Se c’è uno spartitraffico, ci sono auto sullo spartitraffico. Se lo spartitraffico è troppo stretto, ci sono auto con due ruote sullo spartitraffico e due sulla carreggiata. E pare normale.

Se provi a muoverti con l’auto, incappi in un sacco di gente elegante, a bordo di un sacco di auto eleganti: Audi, BMW, fuoristrada, Cayenne. Tutte ferme. Tutte in lotta per cinque centimetri, a colpi di clacson e talvolta insulto, in cinquecento metri di auto completamente ferme. Quelli col fuoristrada, dopo un po’ prendono e passano sui marciapiedi, o persino attraverso i giardinetti.

In più, tutte le vie secondarie sono a senso unico, casuale. Di solito, si inverte a ogni isolato. Quando arrivi su una via un po’ più grande, c’è in mezzo un cordolo o una corsia preferenziale che ti costringe regolarmente a girare nella direzione sbagliata. Dopodichè, arrivi in una piazza rotonda (in modo da perdere l’orientamento) o in un incrocio a cinque vie, in cui la precedenza va per portellate.

Qualunque strada tu prenda per arrivare alle tangenziali, conquistandoti centimetro dopo centimetro l’avanzata come in una trincea, finirai poi sull’autostrada che non solo è piena di cantieri, ma è anche bloccata senza preavviso dopo Arluno. Due chilometri di auto ferme perchè una Audi, un BMW e una 159 si sono toccate e sono finite di traverso tra un cantiere e l’altro. Quaranta minuti di coda.

Ma non è solo il traffico – del resto, anche muovendosi a piedi cambia poco, visto che camminando ti trovi ogni cinque minuti contro un’auto che, due centimetri dal muro e due dagli alberi, si sta infilando sul marciapiede per cercare un “parcheggio”. E’ la gente in metropolitana che (evitando l’acqua che cola in piena stazione Duomo) si mette a litigare per chi ha il diritto di salire per primo sulla scala mobile. E’ l’albergo dove ti chiedono duecento euro a notte per una stanza microscopica col bagno scrostato. E’ il ristorante che ti fa il prezzo fisso per il gruppo compreso dolce, ma del dolce prepara metà delle porzioni necessarie e quando sono finite fa finta di niente. E’ il padrone del catering che, davanti ai commensali, si mette ad insultare le cameriere (“Cretina! Aggiungi dei bicchieri lì! Le bottiglie spostale più in là! Ma come fai a lasciare questa roba qui, che poi uno ci inciampa, scema!”) nell’indifferenza generale, come se fosse normale. Tutto in un giorno solo.

Tornando a Torino, mi sono trovato davanti a un tramonto bellissimo: si vedeva tutto l’arco delle Alpi, dal Monviso in su, con il sole a scendere dietro e tutte le gradazioni dal giallo all’azzurro. Alla fine sono arrivato a casa finalmente rilassato. Passando davanti alla Thales Alenia Space già Alcatel Alenia Space già Alenia Finmeccanica già Alenia Spazio già Aeritalia, mi son detto: la nostra economia andrà un po’ da schifo, ma nessuna quantità di denaro potrebbe convincermi ad affrontare ogni mattina quell’inferno.

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mercoledì 9 Maggio 2007, 08:57

Deglutiamoli

Non ero mai stato all’Università Bocconi in vita mia; ci sono entrato per la prima volta ieri, visto che ospitava la nostra assemblea di Società Internet.

La cosa comincia male, perché sono in ritardo, visto che il mio analista si è scordato della seduta per la seconda volta di fila (è chiaramente una sua resistenza inconscia all’incontro con me; come tale, mi sento titolato a chiedergli di pagarmi ugualmente per le due sedute). Così, a fronte di un inizio riunione alle 13 in piazza Sraffa 13 Milano, io alle 11:40 sto imboccando corso Marche a Torino.

Nel mezzo, c’è la “autostrada” Torino-Milano, quella dove ambienteranno il prossimo numero del videogioco di rally di Colin McRae: chicane ogni chilometro? segnaletica orizzontale a tre strati contraddittori? pullman greci a ottanta all’ora che superano camion a settantacinque? limiti di velocità che cambiano ogni cento metri? tutto questo e anche più: ora (nuovo!) con i cantieri anche da Novara a Milano!

Nonostante questo, con una applicazione rigorosa del principio vauto = vlimite + 40, alle 12:45 sono in viale Certosa, per infilarmi poi nel centinaio di semafori ad onda rossa che intasano la circonvallazione tra piazzale Lotto (che, scopro, è intitolato al pittore e non al più noto gioco d’azzardo) e il Naviglio Pavese. Ho ancora speranza di farcela, visto che ieri ho chiesto a Simone (l’esperto di Milano) se quella della Bocconi, a sud di Porta Ticinese, sia zona parcheggiabile e se si paghi, e lui mi fa: tranquillo! è fuori dalle mura, di sicuro non si paga.

Difatti, arrivo lì ed effettivamente non si paga, nel senso che l’intero quartiere è zona gialla riservata ai residenti; girando lì attorno, trovo in due soli punti rispettivamente venti posti blu (con macchine su tre file) e un pezzo di parco collettivizzato a parcheggio selvaggio. Penso di far brillare la macchina, ma poi, come un miraggio, appare un cartello con la P, che mi guida a un parcheggio sotterraneo da 1,50 euro l’ora (nemmeno tanto), che è proprio sotto l’Università: così arrivo in sala alle 13:15, prima che inizi l’incontro.

Ovviamente l’edificio è strafigo: vi dico soltanto che, stando alle mappe sui muri, non ha un atrio ma un “foyer”, e non ha le macchinette distributrici di cibarie negli angoli, ma una “sala break” con le suddette macchinette incastonate in eleganti chioschi di legno. Il resto è molto milanese, compreso il cartello appeso in multiple copie sul bancone del bar di fronte alle macchinette, scritto in caratteri cubitali in grassetto, che specifica che le macchinette non sono in gestione al bar e quindi il bar non fornisce gratuitamente tovagliolini e altro materiale per fruirne i prodotti.

Tuttavia, comincio a notare alcune cose un po’ strane. Ad esempio, durante la riunione, c’è sempre un fastidioso rumore di fondo, che a tratti diventa così forte da non riuscire a sentire la persona che parla a due metri di distanza. Guardiamo fuori, e scopriamo che attorno all’edificio ci sono almeno tre diversi edifici in costruzione o in ristrutturazione, con tanto di gru, muratori e martelli pneumatici. Diventa impossibile persino chiacchierare del più e del meno, e quindi ci chiediamo: ma come fanno a fare lezione?

Alla pausa, alle tre meno un quarto, andiamo a prendere un caffè e scopriamo un’altra cosa strana: il bar – pardon, la sala break – è pieno, stracolmo di studenti. Sono tutti bambinetti bauscia, firmatissimi dal primo all’ultimo pelo di mutanda, con regolamentari vite basse e marchi bene in vista. Cazzeggiano allegramente. Vabbe’, saranno in pausa, dico io: eppure alle tre e venti sono ancora lì. Esco per fare una telefonata, e verso le quattro non solo sono ancora lì, ma diventano uno sciame, una folla strabordante che annichilisce il mio Nokia insieme ai persistenti martelli pneumatici, e mi costringe a mettere giù. Sono tutti firmati. Saranno centinaia, ma sì e no una ventina hanno dei libri sotto braccio. Uno ha dei volantini di una assicurazione personale, con cui abborda le tipe dalla quarta in su (ai miei tempi però si propagandavano discoteche: come cambiano i tempi…). Due guardano il manifesto di Azione Universitaria che invita gli studenti a un concerto elettorale con Faso, Cesareo e Meyer (non sapevo fossero fascistoni). Gli altri, ridacchiano.

Per carità, la mia è una prima impressione e come tale è probabile che sia sbagliata, ma mi resta l’idea che, ecco, quaggiù non si faccia un cazzo (come peraltro, purtroppo, ormai nella maggior parte delle Università italiane).

Però non mi rassegno, mi ci arrovello, e alla fine ho l’illuminazione: gli studenti sono solo una copertura. Il vero scopo di questa Università è costruire nuovi metri cubi di cemento nel centro città col mercato immobiliare più caro d’Italia. Non può che essere così.

E, rassicurato sul luminoso futuro dell’Università italiana pubblica e privata, mi preparo volentieri per la cena.

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martedì 8 Maggio 2007, 09:26

Il Cairmano

Domenica mattina sono andato anche io alla Marcia per il Filadelfia, proclamata dal presidente Cairo per unire i tifosi del Toro, nella richiesta al Comune di ricostruire lo storico stadio e centro sportivo.

La marcia era stata preceduta da varie polemiche; un ultras storico come Marco Montiglio aveva dichiarato che non ci sarebbe venuto, e in molti dei granata doc – anarchici e orgogliosi nell’anima – l’idea di accorrere alla chiamata di un presidente, persona che nel calcio è alleata ma spesso anche controparte dei tifosi, ha fatto storcere un po’ il naso; tanto più che la chiamata è giunta nel mezzo di una dura e prolungata battaglia mediatica con il sindaco Chiamparino, che da parte sua ne ha combinate di cotte e di crude sugli stadi torinesi (come già più volte qui raccontato), arrivando infine a dire che “era meglio Cimminelli” (per la cupola cittadina, certamente: l’avevano messo loro e ne eseguiva gli ordini…).

Insomma, non a tutti i tifosi andava di farsi “strumentalizzare” da Cairo in una battaglia politico-affaristica, anche se poi, riflettendo, la maggior parte dei tifosi – me compreso – hanno concluso che in questo scontro l’interesse di Cairo fosse anche quello del Toro e persino quello della cittadinanza in generale, aderendo quindi alla manifestazione.

La marcia in sè è stata tranquilla e beata, una festa non solo di ultras – guidati dallo storico Margaro – ma soprattutto di tifosi normali, con tante bici, tanti bambini, tanti vecchietti granata, e anche tanti club. All’inizio, in piazza Solferino, eravamo poche migliaia, ma il corteo si è andato ingrossando, raggiungendo una cifra finale di circa diecimila persone (quindicimila per Cairo, settemila per la Questura). La marcia è stata pacifica, scandita da cori e applausi, con grande commozione al cippo di Meroni; l’unico attimo di tensione è stato per un fesso con una bandiera bianconera in corso Re Umberto 82 (citofonare…), ripagato da un signore più avanti che ha messo lo stereo alla finestra per suonare l’inno del Toro. Qui trovate alcune delle foto.

L’atmosfera, però, è cambiata alla fine: al Filadelfia, Cairo si è arrampicato sui ruderi per arringare la folla, grazie ad un pronto radiomicrofono. Qui trovate alcuni estratti ripresi da me; oppure, se ci tenete, qui trovate il video completo.

E’ stato difficile restare seri durante il discorso. A tratti, ci si aspettava che Cairo esclamasse “I-taliani!”, o anche “Vincere! E vinceremo!”. A tratti, ha promesso nuovi miracoli granata. Verso la fine – in questo video – è sembrato persino caricaturale, ricordando un animatore di villaggio vacanze, o Elio che imita Madonna chiedendo alla folla “Sieti cià cauldi?”. Nelle pause, mi veniva naturale aspettarmi che la folla gridasse “Sil-vio! Sil-vio!”, ma mi venivano in mente anche le scene di Sordi nel Borgorosso FC.

E’ noto il carattere femminile della folla e della folla italiana in particolare: ecco, probabilmente quella di ieri è stata una visione tipicamente italiana, incomprensibile all’estero, a quelli che non hanno mai capito come avessimo fatto a scegliere gente come Berlusconi.

Per combinazione, la sera su Sky davano Il caimano di Nanni Moretti, che non avevo ancora visto. Premetto che Moretti mi sta sonoramente antipatico; ho visto alcuni dei suoi primi film, anni fa, rimandendo disgustato dal trasparente autocompiacimento e dal vecchiume intellettualoide e sinistrorso; sui suoi excursus politici a forza di girotondi, stendiamo un velo pietoso; insomma, mi son sempre guardato bene, da tempo, dall’inciampare in lui.

Questo film, però, è molto affascinante, per via della sua dimensione onirica; del continuo mescolarsi tra realtà, finzione, finzione che sembra reale (ossia il cinema) e realtà che sembra finzione (tra cui molto della vita di Berlusconi). Non è un Mulholland Drive di sinistra, eppure questo contrasto ipnotico tra lo squallore e il frantumarsi impotente della vita vera del protagonista da una parte, e il mito irreale dell’uomo sempre bello, sempre ricco, sempre ammirato, sempre vincente – sempre potente – dall’altra, colpisce davvero; così come il gioco (pur sempre narcisistico) di parlare di Berlusconi mettendo se stessi in un film a dire che non ha più senso parlare di Berlusconi in un film. In più, c’è quella svolta inquietante nel finale; essa ricongiunge l’estetica del mito con la bruttura del reale, ma anche Berlusconi (il nostro gemello interiore malvagio e vincente) con noi stessi-Moretti, e rende difficile da dimenticare la tesi della pellicola.

Avendo pertanto acquisito il messaggio che tutti noi siamo un po’ Berlusconi, mi compiaccio di ritrovare tale verità in Urbano Cairo, che di Berlusconi è stato il segretario particolare, compreso coinvolgimento in fondi neri Mediaset. Anche Cairo è un personaggio inquietante, soprattutto perché imperscrutabile: ha la lingua talmente lunga, e una tal scuola alle spalle, che non capisci mai se è serio o se ti sta cinicamente prendendo per il culo.

Io spero solo che con il calcio si diverta veramente, in modo da fare l’unica cosa che a noi poveri cittadini tifosi, anarchici e orgogliosi, resta da fare: sfruttare cinicamente il suo portafoglio, e fargli pagare un giusto biglietto d’ingresso per il grande gioco delle sue ambizioni.

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lunedì 7 Maggio 2007, 19:27

Ridotti male

Oggi, ritornando da un cliente, pedalavo allegro sul tratto di via Guido Reni che va da via Filadelfia a via Baltimora. Proprio lì, sull’aiuola spartitraffico centrale, si trovano alcuni alberi di discrete dimensioni, residuo di quando lì era tutta campagna; tra cui uno che pare un ciliegio o assimilabile.

Bene, mentre passo, mi accorgo di un tizio che, con in mano un sacchetto di carta, si arrovella attorno all’albero, tra le macchine che sfrecciano, cercando disperatamente di aggrapparsi ai rami per cogliere le ciliegie (che, data la posizione, conterranno per il 99% ossidi di azoto e polveri sottili).

Ma quanto si deve essere ridotti male, per pensare di andare a cogliere le ciliegie dello spartitraffico?

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lunedì 7 Maggio 2007, 19:20

Impegni presenti e futuri

No, scusate, ho almeno tre post per la testa, ma per un motivo o per l’altro il mio tempo di oggi è stato risucchiato completamente. Facciamo che adesso scrivo quello breve, mentre quello lungo lo rimando a domani mattina, visto che tra mezz’oretta devo uscire per andare a fare la cavia del sushi casalingo di Simone (il pesce palla però lo assaggia lui).

Nel frattempo segnalo questo evento mercoledì a Milano, in cui illustri intervenuti tra cui il sottoscritto (che ovviamente metterà insieme le slide martedì notte) discetteranno del futuro della rete e dei suoi problemi. Se qualcuno è interessato, c’è ancora qualche posto.

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