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Archivio per il mese di Giugno 2008


venerdì 20 Giugno 2008, 14:28

Svolta a destra

Stamattina mi è capitato di far parte di un altro episodio stradale interessante.

Arrivando dal centro, percorrevo il sottopasso di corso Regina Margherita sotto la ferrovia per Milano; per i non torinesi, è un budello risalente agli anni ’30, martoriato dai cantieri, dove un corso principale si stringe in una corsia libera più una corsia preferenziale per senso di marcia, separate solo dalla striscia gialla dipinta.

Percorrevo il passaggio agli inevitabili 40 orari, dietro una lunga fila di auto, ed ero nel punto più basso, quello dove il passaggio si stringe per via dei pilastri centrali; conseguentemente ho accostato un po’ verso destra e ho sentito strombazzare. Dietro di me, a circa 80 all’ora, stava arrivando un’auto dei vigili; mi stava segnalando che non accostassi troppo, perché mi stavano per superare a destra sfruttando la preferenziale.

Compiuto il sorpasso, i vigili hanno proseguito sulla corsia preferenziale, mentre davanti a me, dove la corsia agibile si allarga quel tanto da permettere il passaggio di due auto affiancate a dieci centimetri di distanza, sulla parte destra, al fondo della salita, si è formata la solita corsia di auto in attesa di svoltare a destra in via Macerata.

Si tratta di una svolta a destra vietata; tuttavia è una manovra comunissima, che ad ogni ciclo semaforico fanno almeno una decina di auto, perché è l’unico modo che permetta di accedere dal centro alla zona di via Livorno, all’Ipercoop, al multisala Medusa, all’Environment Park e insomma a un intero quartiere di decine di migliaia di abitanti. Le svolte a destra e a sinistra sono infatti vietate anche in tutti gli incroci successivi per 1500 metri; il percorso legale per quel quartiere in sostanza non esiste, richiederebbe di non imboccare il sottopasso e passare da piazza Statuto (almeno 4-5 minuti in più, a seconda delle code) o di andare avanti fino a corso Svizzera per poi ritornare indietro da corso Umbria (allungando di oltre due chilometri). E quindi, la cittadinanza che frequenta la zona – me compreso – ha deciso da anni che, nonostante il cartello, la svolta a destra in via Macerata è legale.

Per svoltare, però, bisogna attraversare la preferenziale; e infatti, proprio mentre l’auto davanti a me stava per farlo, sono sopraggiunti i vigili. L’auto si è fermata per farli passare; i vigili però hanno inchiodato, hanno tirato giù il finestrino e si sono messi a redarguire il conducente. Il conducente aveva un passeggero che ha tirato fuori la testa e ha cominciato temerariamente a discutere; al che pure io ho spento la radio, abbassato i finestrini e carpito brani della discussione. Mentre l’incrocio si intasava, il passeggero ha spiegato ai vigili quello che vi ho spiegato io sopra, cioè che se tutte le svolte a destra e a sinistra sono vietate per chilometri la gente non può che infilarsi dove la violazione disturba di meno.

Alla fine, ognuno è rimasto della sua opinione: dopo quasi un minuto di discussione, con il sottopasso ormai abbastanza intasato, i vigili sono ripartiti senza fare la multa, e l’auto davanti a me ha effettuato la svolta vietata, con me dietro. Non so dare ragione a nessuno dei due; certo mi stupisce che ci si scanni sul sintomo – cioè se sia giusto o meno che tutti in quel punto svoltino in divieto – invece che discutere del problema, cioè di come ordinare nel modo migliore possibile l’esigenza di migliaia di persone di andare da A a B; insomma come non si colga la differenza tra vietare una svolta a destra ogni tanto, e vietare tutte le svolte per chilometri. Che poi è come la differenza tra un moderatore che una volta ti toglie la parola perché sei andato oltre il tempo stabilito, e un sistema in cui non puoi parlare mai.

[tags]torino, viabilità, vigili, segnaletica, multe[/tags]

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venerdì 20 Giugno 2008, 12:55

Sono tonto

Davanti a un posto in cui vado regolarmente – quasi in centro, in piena zona blu e comunque imparcheggiabile – si trova una carrozzeria. Davanti alla carrozzeria c’è sempre, da anni, una Punto blu chiaro in riparazione, ferma col cofano aperto; siccome non ci sono parcheggi e l’unico posto riservato giallo del carrozziere è solitamente già pieno di altre auto in lavorazione, la Punto blu chiaro è normalmente piazzata davanti ai cassonetti o a uno dei portoni dell’isolato, di quelli che sono un passo carrabile ma vengono usati poco o nulla perché portano a un cortiletto o al retro della scuola, dove le auto non parcheggiano. Qualunque cosa succeda, compreso il fatto che il proprietario del portone possa dover passare, l’auto è lì e non viene mai spostata; tanto che gli stessi proprietari spesso vanno a cercarsi parcheggio in strada per le strisce blu, invece di scendere, chiamare il carrozziere e pretendere lo spostamento.

Io però ci ho messo quattro anni per capire che, visto che la Punto blu chiaro è lì ogni santo giorno, è l’auto personale del carrozziere; e che viene messa lì col cofano aperto non perché ci sia bisogno di ripararla, ma per avere una scusa per non doverla spostare troppo facilmente, e per giustificare perché sia ferma lì senza pagare la sosta.

[tags]italiani, carrozzerie[/tags]

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giovedì 19 Giugno 2008, 12:26

Altro cemento

Ieri, girando per il quartiere, sono ripassato dopo anni in via Pacchiotti, davanti a un vecchio campo da calcio – niente più che un prato con due porte in mezzo alle case – dove andavo ogni tanto a giocare il sabato negli anni dell’università. E così ho scoperto che il campo non esiste più: nel frattempo, ci è spuntato sopra un cantiere per la costruzione di un enorme edificio rivestito in tonalità di grigio, lungo un centinaio di metri e alto tre piani, che però sembra semiabbandonato tra le lamiere che delimitano i lavori.

Il cartello, con l’immancabile logo “Torino on the move”, spiega che si tratta di una costruzione iniziata nel 2006 e con fine lavori nel febbraio 2008 (e qui già qualcosa non torna), per un costo di due milioni trecentomila euro e rotti; lo scopo è la realizzazione di una “palestra per la ginnastica artistica”.

Ora, sono sicuro che a Torino ci sia estremo bisogno di palestre per la ginnastica artistica; evidentemente queste palestre devono avere qualcosa di specifico per cui quelle normali non vanno bene, visto che il nuovo edificio è esattamente di fronte a una scuola media che dispone già della sua brava palestra agibile tutti i pomeriggi. In compenso, quello era l’unico prato verde (sterrato davanti alle porte) di un quartiere urbano che, per carità, è vicino a numerosi parchi, ma è comunque interamente costruito.

Sono quindi un po’ dubbioso sul senso logico, per un Comune che dichiara di essere in bolletta e di dover tagliare le manifestazioni culturali e persino l’assistenza sociale, di spendere oltre due milioni di euro per costruire una nuova palestra, in una zona piena di scuole anni ’70 con le relative palestre, oltre a due complessi comunali con piscina coperta e campi sportivi e tutta una serie di altre infrastrutture; viste le tante altre storie di cui abbiamo già parlato, dagli stadi all’Arena Rock, il nostro Comune dimostra sempre un inspiegabile desiderio di spargere cemento, che spero non vada spiegato con le relazioni amicali e financo parentali intercorrenti tra i leader politici locali e alcuni grandi aziende edili.

Stavolta, però, non è tanto questione di indignarsi, che il limite di indignazione l’abbiamo superato da tempo; è più che altro la sorpresa nel rendersi conto di come pezzi interi di città che tu hai vissuto per anni, e che tendi quindi a dare per scontati, possano sparire nel nulla da un momento all’altro.

[tags]torino, ginnastica artistica, palestre, edilizia, città[/tags]

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mercoledì 18 Giugno 2008, 09:52

Cicli e ricicli

Ieri pomeriggio sono andato in ufficio; una volta ci andavo tutti i giorni, poi ho cominciato a diversificare le mie attività e a lavorare da casa, e ora ci capito un paio di volte al mese. Causa piogge, era parecchio tempo che non ci andavo in bici; in questi giorni però ho deciso di ignorare il problema, e quindi ieri ero in giro per la città in bicicletta nonostante il rischio dell’acqua.

Sono arrivato in ufficio verso le 14, tutto bene; ho fatto la mia riunione; circa alle 17,30 ho reinforcato il mezzo per tornare indietro, proprio mentre iniziavano a cadere timide ma insistenti gocce di pioggia. Mi era già capitato un paio di anni fa di prendermi la pioggia su questo percorso; non era stato poi così male, ma preferivo non ripetere l’esperimento. Così ho preso le vie a tutta velocità, cercando di fare il percorso più diretto e rapido per arrivare a casa, anzi visualizzandomelo in anticipo per farlo sembrare più corto.

E’ stato solo quando sono arrivato su corso Cincinnato all’altezza di via Pianezza, praticamente alla Pellerina, che ho realizzato: sì, ma quale casa? Ecco, forte di anni di abitudine, avevo preso in automatico il percorso che portava alla casa vecchia, e che per la casa nuova costituisce un significativo allungamento.

E così, divertito sotto la pioggia dai cicli della vita, ho dovuto riparare; ma non tutto vien per nuocere, perché la situazione mi ha regalato un attraversamento diagonale della Pellerina, verde, bagnata e deserta a parte qualche residuo jogger e qualche cane, fino all’ardita struttura elicoidale che supera le pendici di corso Monte Grappa. Proprio in cima al primo GPM, il ponte ad arco sulla Dora, mi sono fermato un attimo: da lì, messere, si domina la valle.

Il fiume non è più al livello di guardia, ma è lo stesso enormemente alto, solo un metro sotto il bordo delle pareti di pietra, quasi a invadere il declivio dell’erba. Sotto il cielo grigio, in mezzo al verde lucido dei prati e a quello più scuro degli alberi, un enorme flusso forzato di acqua altrettanto grigia sforza lo stretto letto del fiume per arrivare a valle. Sembra effettivamente che debba prima o poi rompere le costrizioni, e strabordare per tutto lo spazio visibile, fino a sommergere le terre. Non succederà, ma è lo stesso uno spettacolo magnifico.

[tags]torino, pioggia, pellerina, dora, abitudini[/tags]

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martedì 17 Giugno 2008, 09:54

Cara Tiscali

Cara Tiscali S.p.A.,

ho ricevuto ieri sera una comunicazione di mancato pagamento della prima fattura (risalente a marzo 2008) del mio abbonamento ADSL, con preavviso che mi staccherete il servizio se non pago entro sette giorni.

Ora, permettetemi di ricapitolare brevemente la situazione.

Per prima cosa, a dicembre, ho aperto l’abbonamento e ho cominciato ad attendermi i vostri addebiti in banca, che non sono mai arrivati.

A un certo punto, avendo traslocato, ho anche provato a cambiare il mio indirizzo e le mie coordinate bancarie nel vostro “130 fai da te” su Web, ma il sistema non funzionava e si piantava con messaggi semi-incomprensibili in inglese, tipo “Wrong parameter: county” o qualcosa del genere.

Allora ho provato a segnalare il problema tramite il vostro labirinto di form di “assistenza” per contattarvi via Web, e non ho mai ricevuto nemmeno una riga di risposta.

Poi, dopo quattro mesi di silenzio, mi avete mandato una fattura per tre mesi tutti in una volta, insieme a una lettera in cui dicevate che non riuscivate a far funzionare un semplice RID per vostre disorganizzazioni e mi avete chiesto di pagare via posta.

Poi ho chiamato il 130 e mi avete detto di ignorare la lettera e aspettare perchè avevate avuto problemi ma sarebbe stato incassato tutto col RID.

Poi mi avete mandato la seconda fattura, senza alcuna notizia della prima.

Adesso avete mandato un minaccioso sollecito di pagamento per la prima fattura, nonostante siate riusciti ad addebitarmi correttamente la seconda e quindi non si capisca perché non abbiate semplicemente incassato anche la prima via RID; anche se devo dire che la seconda fattura risulta pagata correttamente sul vostro “130 fai da te”, ma io non ne ho ancora visto l’addebito sul mio conto, quindi non so bene cosa abbiate fatto.

Ieri sera sono andato sul “130 fai da te” per provare a pagare la fattura mancante via carta di credito, secondo la procedura indicata nel sollecito, e la procedura era errata. Nel mio dettaglio fatture, accanto a quella in questione, non compare il link per pagare, ma c’è scritto “non pagata*” e sotto “* = pagamento in corso”. Naturalmente ignoro se ciò voglia dire che avete nel frattempo mandato la richiesta di addebito alla mia banca, o se il pagamento in corso sia in realtà il sollecito che avete inviato.

Allora ho provato sempre sul “130 fai da te” a cambiare la modalità di pagamento e a metterla sulla mia carta di credito, e nonostante usi quella carta regolarmente e ovunque, mi dice “carta di credito non valida”.

Insomma, che cosa volete da me? Non ho mai visto una disorganizzazione e una impreparazione del genere, ormai persino l’Azienda Elettrica di Roccacannuccia riesce a incassare un RID e a far funzionare una interfaccia web di customer management, mentre voi da sei mesi state sbattendo contro questo difficilissimo problema di incassare da me cento euro e rotti nonostante io vi abbia fornito due diverse coordinate bancarie valide e il mio numero di carta di credito.

A questo punto, vi pregherei gentilmente di incassare i vostri soldi dal mio conto in banca senza farmi perdere ulteriormente tempo. O perlomeno, se devo fare qualcosa io, mandatemi delle istruzioni per pagare online che non si rivelino errate, e che non mi costringano a stare venti minuti in attesa col cellulare ad ascoltare l’orrenda musichina del 130 a mie spese.

Grazie,

[tags]tiscali, adsl, in italia i consumatori sono trattati come merde grazie alla connivenza dei politici[/tags]

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lunedì 16 Giugno 2008, 17:29

Sappiatelo prima

Non mi era mai successo di sognare in anticipo l’esito di eventi imminenti, di qualsiasi genere essi fossero: esami universitari, riunioni aziendali o concorsi a premi. Mi è successo domenica mattina, e quindi lo riporto fedelmente per aiutare chi deve scommettere: Francia – Italia 2-0 (anche se quando mi sono svegliato la partita non era ancora finita). L’Italia giocherà in maglia bianca, e avrà uno sponsor nella parte bassa della maglietta, più o meno all’altezza delle parti intime: con un sobrio carattere istituzionale, ci sarà scritto “Family Day”. Sarà per quello che perderemo?

[tags]sogni, calcio, europei, italia[/tags]

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lunedì 16 Giugno 2008, 11:47

I figli dell’Ecopass

Stamattina mi sono svegliato in montagna, in un clima scozzese: ero immerso nelle nuvole, e dalla finestra si vedevano solo il praticello bagnato e una specie di fluffone grigio che si sfilacciava sopra la staccionata, ma che nascondeva persino il piazzale sottostante. Cerco sempre di restare in montagna una notte in più, e di tornare giù il lunedì mattina; ci vuole poco più di un’ora, ma la sensazione è molto diversa.

Fa sempre impressione però trovarsi in un posto bellissimo, un insieme di piccoli condomini nel mezzo del nulla a milleseicento metri d’altezza, in cui io sono in sostanza l’unico torinese: il resto delle case, come ovunque in val d’Aosta, è posseduto all’80% dalle varie sottospecie lombardo-arricchite (il che spiega i prezzi medi dei negozi, simili a quelli di piazza Duomo).

Pertanto, non solo la maggior parte delle auto parcheggiate sono SUV e nessuna ha più di due anni di vita, ma esse sono utilizzate anche per percorrere i cento metri che separano la porta di casa dal bar, o le quattro curve che portano ai bidoni dell’immondizia.

A proposito, stamattina, quando sono andato a buttare la mia, dopo aver diligentemente buttato le bottiglie e la carta negli appositi contenitori ho aperto il bidone dell’indifferenziato; era vuoto, tranne un solingo foglio di istruzioni Ikea buttato singolarmente nel bidone. Ora, se tu hai in mano un pezzo di carta che vuoi buttare, e davanti a te ci sono un bidone verde per l’indifferenziato, uno arancione per il vetro, uno marrone per la plastica e uno giallo per la carta, mi spieghi come ti può venire in mente di buttarlo nell’indifferenziato? Posso ancora capire la devastante fatica di differenziare in casa, ma lì?

Alla fine sono fortunato: tendo ad andare in montagna in settimana, ricavandomi due giorni senza appuntamenti, quando devo scrivere o programmare qualcosa di complicato; in quei casi, sono completamente solo in mezzo alla montagna e non mi ritrovo in mezzo a questi comportamenti. Tuttavia, il motivo per cui così tanta gente senta l’esigenza di comprarsi una casa in mezzo alla natura e poi di usarla in questo modo onestamente mi sfugge.

[tags]val d’aosta, montagna, villeggianti, lombardi, arricchiti[/tags]

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sabato 14 Giugno 2008, 14:30

Tema: Alessandria

L’altra sera io e un gruppo di amici ci siamo ritrovati ad Alessandria. Eravamo lì per un motivo troppo nerd per essere spiegato, ma ciò che conta è che erano quasi le otto e volevamo trovare un bel posto per mangiare; Osterie d’Italia alla mano, abbiamo mirato al ristorante Cappelverde, via San Pio V.

Il problema è che nessuno di noi aveva un navigatore; quello di Simone era finto, nel senso che sul cellulare compariva soltanto l’ingrandimento di uno screenshot di Google Maps relativo al posto dove eravamo andati prima. Cosa fanno allora quattro amici per trovare via San Pio V ad Alessandria?

Per prima cosa abbiamo consultato l’atlante del Touring, che ha una cartina della città, ma sfortunatamente non riporta tale via. Allora il sottoscritto ha pensato di individuare una centrale operativa fissa – un amico, un parente, chiunque fosse davanti a un computer – a cui telefonare per chiedere di collegarsi a Google, cercare l’indirizzo e dare indicazioni. Certo, c’era anche la possibilità di fermarsi e chiedere, come ha sottolineato l’unica donna del gruppo, ma noi siamo uomini e non dobbiamo chiedere mai. E così anche la centrale operativa è stata rimandata: ci siamo dati la sfida di percorrere sistematicamente in auto tutto il centro di Alessandria fino ad incocciare per caso nella via in questione.

Dopo venti minuti di giro, abbiamo realizzato che Alessandria ha una peculiarità: non solo tutte le vie sono intitolate per qualche misterioso motivo a città venete o emiliane, ma sono anche vie strette e piene di auto abbandonate a caso. Siamo così sbucati di nuovo sulla circonvallazione, e dato che la fame premeva stava per scattare lo scaricamento di barile con conseguente rissa, quando io ho esclamato: “là!”. Effettivamente, c’era un cartello con scritto “via San Pio V”, e con la fame che avevo l’ho visto senza fallo da un centinaio di metri.

Trovata la via, abbiamo parcheggiato e siamo arrivati a piedi al ristorante: peccato fosse in ferie. Abbiamo così deciso di allargare la ricerca, e percorrere il centro fino a trovare un locale di nostro gradimento. Ecco, non è che non l’abbiamo trovato: semplicemente, in centro ad Alessandria non esistono locali. Non esistono nemmeno abitanti, direi: è un’unica sequenza di basse cascine e condomini, trasformati in una conurbazione che alle otto di sera di un mercoledì di giugno risulta deserta. L’unica cosa aperta erano i negozi cinesi; per il resto, nulla di nulla, nemmeno nelle piazze più centrali: sembrava la città fantasma di Chernobyl.

Alla fine, comunque, è andata bene: Fabbrone c’era già stato ed ha individuato l’unico ristorante aperto nel raggio di chilometri, il ristorante giapponese Zen, che si è pure rivelato ottimo, niente affatto caro e pieno di belle ragazze. La serata così è finita in gloria, però siamo rimasti con l’inquietante dubbio di cosa facciano i mandrogni la sera: c’è chi suggerisce che rimangano chiusi in casa con le belle ragazze, e se è così, siamo contenti per loro.

[tags]alessandria, cibo, fame, san pio v, ristoranti giapponesi, deserto[/tags]

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venerdì 13 Giugno 2008, 14:16

Raptus cosciente

Sono una persona che ha imparato, con molta fatica, a non avere rimpianti, accettando il fatto che quando si compie una azione è perché in quel momento la si ritiene opportuna, e giudicare con il senno di poi non ha alcun senso. Sono anche una persona abituata a difendere con ogni mezzo le proprie opinioni, sin da quando lo si faceva per gioco su Usenet oltre dieci anni fa, arrivando ora a farlo anche su questioni serie.

Però oggi sono rimasto un po’ spiazzato, riesaminando a mente fredda una cosa che ho fatto settimane fa, che ha fatto arrabbiare varie persone, e che con il senno di poi non ha alcun senso. E non è solo questione di reazioni: anche riconsiderando la cosa solo per ciò che riguarda se stessi, saltano fuori solo lati negativi – in termini pratici, in termini etici, in termini interpersonali – e insomma, non riesco proprio a capire cosa avessi per la testa nel momento in cui l’ho fatta.

Sicuramente in quel momento doveva esistere qualche ragione per comportarsi così; anche solo le palle girate o una momentanea frustrazione di qualche tipo. Sicuramente non mi ero accorto delle pur ovvie interpretazioni che altri avrebbero dato a quello che stavo facendo. Ma anche così, è come se questa azione non mi appartenesse; se davvero (anche se so che non è così) fosse il frutto di dieci minuti di improvviso rapimento del mio corpo e del mio cervello da parte di qualcun altro.

Alla fine, uno si assume le proprie responsabilità; non difende l’indifendibile, ma si scusa per quanto possibile, e accetta le conseguenze. Resta però questa sensazione inquietante di come sia estremamente facile, nella vita, combinare guai anche pesanti in modo del tutto inconsapevole.

[tags]azioni, volontà, conseguenze, scuse[/tags]

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giovedì 12 Giugno 2008, 11:07

Non si vede da qua

Stamattina, in una piccola intervista sulle pagine locali de La Stampa – insomma in uno di quei luoghi mediatici meno evidenti dove si possono ancora esprimere opinioni scomode – il professor Sartori, con parecchi giri di parole e naturalmente presentando la cosa come una pura ipotesi di scuola, si chiede se sarebbe possibile trasformare il nostro Paese o un qualsiasi Paese democratico in una dittatura senza un vero colpo di stato, ma semplicemente occupando il potere e creando un clima per cui il dissenso viene scoraggiato; per cui non c’è bisogno di censurare i media, perché i media si censurano da soli; per cui non c’è bisogno di incarcerare i dissidenti, perché tanto vengono ignorati o sbeffeggiati dalla massa.

Gli artisti, come al solito, ci arrivano prima; per esempio, questa canzone di Silvestri è del 2002 e chissà quanti l’avranno canticchiata senza capire bene cosa volesse dire. Eppure, il dubbio di vivere in una “dittatura dolce”, che “c’è ma non si sa dove sta, non si vede da qua” sta cominciando a prendere piede in molti. Se ci si ferma un attimo a pensare, come altro definire il fatto che basta accendere il televisore sui più visti telegiornali della nazione per ritrovarsi di fronte soltanto a dieci minuti di dichiarazioni politiche senza contraddittorio, seguiti da venti minuti di “informazione” sulle gag di Fiorello, sui filmati buffi di Youtube o sulla moda / paura del momento? E come definire una situazione in cui il potere esecutivo, concentrato in pochissime persone, prima imbavaglia quello legislativo mediante una legge elettorale che fa dipendere l’elezione esclusivamente dalle scelte dei leader e non dalla volontà popolare, e poi blocca quello giudiziario tagliandogli i fondi e privandolo degli strumenti necessari per indagare?

Non bisogna fare l’errore di credere che sia necessaria la presenza di squadroni della morte e roghi in piazza perché la libertà venga eliminata; basta indottrinare le persone. Ma la nostra televisione, a parte l’abbondanza di culi e tette, è davvero così diversa da quella della Corea del Nord?

Non bisogna però nemmeno fare l’errore di attribuire tutto a una sola persona. Il problema non è Berlusconi, anche se certamente Berlusconi, così come persone altrettanto e più pronte di lui a gestire il potere e a guadagnare dall’organizzazione sociale, fa in modo di spingere la realizzazione compiuta di questo sistema. (Il bello è che ce l’avevano tranquillamente detto in faccia trent’anni fa, ma nessuno sembra ricordarselo.) E’ però tutto il sistema ad essere organizzato in questo modo; non è questione di aspettare che una persona specifica tiri le cuoia (le auguro cento di questi giorni, Presidente).

Viviamo in qualcosa che è persino erroneo definire neoliberismo, perché di libertà ce n’è ben poca, anche sul mercato, dove è tutto un fiorire di cartelli e manovre per gonfiare i prezzi e impoverire le persone. Viviamo in qualcosa che è difficile da definire, proprio perché non si vede; non è concentrato in una persona o in un luogo, ma è diffuso nelle regole immateriali che tengono insieme la società.

Da qualche anno, però, complice la diminuzione della quantità di risorse planetarie disponibile per ogni essere umano del mondo sviluppato, le condizioni di vita che questo sistema offre ai suoi sudditi sono in via di peggioramento; e lo saranno sempre di più, se non si cambiano le basi su cui sono fondate le nostre società. La fame è l’unico vero fattore che genera le rivoluzioni, e la fame sta crescendo; a un certo punto nessun sistema potrà resisterle, potrà solo scegliere se allentare la presa o crollare (e per quanto sembri stupido, di solito i dittatori scelgono di crollare).

In mezzo, però, c’è la fase cattiva, quella in cui il controllo sulla società diventerà sempre più stretto, e qualsiasi forma di protesta sarà repressa col manganello. Che sia Venaus, che sia Chiaiano, che siano operai che lavorano in condizioni disumane o impiegati alla fame, non ci sarà spazio per la protesta; indipendentemente dalle ragioni, la protesta sarà definita come disfattista, egoista, antisociale, o semplicemente maleducata. E sarà repressa tra gli applausi della gente.

Un solo fattore può scombinare questa situazione: la rete, ossia la possibilità di comunicare e di organizzarsi trasversalmente, dal basso, al di fuori del controllo e degli schemi. Purtroppo ormai anche loro cominciano ad accorgersene, e il rischio è che, con la scusa della sicurezza, anche la rete si trasformi presto in uno strumento controllato. Già oggi Google sa, Google può; c’è chi l’ha definito il seme del nuovo fascismo telematico, visto che Google esercita potenzialmente una dittatura dolce su ciò che cerchiamo e troviamo in rete, sulla nostra mail, sui nostri filmati, su tutto ciò che siamo e facciamo. Ma se riusciremo ad usare la rete in modo intelligente, evitando le dolci trappole che raccolgono dati su di noi senza nemmeno chiederci (pensa!) di essere pagate, allora avremo qualche speranza: perché l’elemento chiave della rete non sono i computer, sono le persone che si parlano.

Nel frattempo, che ognuno di noi si chieda perlomeno in che società vive, che ne parli, che non abbia paura di esprimere pensieri scomodi e dissenzienti; e anche se non tutti possono impegnarsi attivamente per cambiare il mondo – e poi che fare, è frustrante, è difficile, e le possibilità sono poche – è importante almeno che sempre più persone siano sveglie e coscienti.

[tags]italia, dittatura, neoliberismo, berlusconi, google, società, rivoluzione, nuovo ordine mondiale[/tags]

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