Tra la rete e il West
Come lettura domenicale, vi lascio il mio articolo pubblicato su Nòva – il supplemento del Sole 24 Ore – una decina di giorni fa. Sperando che venga letto e capito… (non certo come ha fatto Mantellini, che invece di discutere il progetto si è messo a commentare una sua idea di carta dei diritti che è ben diversa da quello di cui si sta discutendo).
Poche settimane fa, quando l’Agenzia delle Entrate decise di pubblicare su Internet i redditi di tutti gli italiani, anche l’Italia scoprì un problema fondamentale: gli equilibri tra diritti raggiunti nell’era analogica non si applicano poi così bene all’era digitale. Pochi mesi prima, anche l’Estonia aveva dovuto fronteggiare una nuova sfida, quando in mezzo a una crisi politica con la Russia la sua infrastruttura di rete – e con essa il sistema bancario, quello energetico e praticamente tutta la vita nazionale – si era ritrovata sotto un attacco informatico di tipo militare, proveniente non da uno Stato ma da non meglio precisati hacker. Nel frattempo, da entrambi i lati dell’Atlantico, Parlamenti, aziende, organizzazioni e privati cittadini si confrontavano su termini nuovi e ancora tutti da definire, come neutralità della rete o diritto di accesso all’informazione.
Le cronache internazionali di questi anni sono piene di discussioni e di esempi su come i modelli di governo del pianeta, basati sulla sovranità nazionale, siano stati messi in crisi da Internet e dalla globalizzazione. Oggi un ventenne californiano può scrivere Napster e segnare il destino di una industria multimiliardaria, mentre la decisione di un motore di ricerca di retrocedere certi siti in fondo ai propri risultati può costituire uno strumento di censura globale privo di controllo.
Internet è nata col mito di un mondo senza regole; nello spirito del Far West, molti dei suoi fondatori ritenevano che la rete si potesse governare da sé. Altri, specialmente tra le grandi corporation americane, si sono accodati a questa visione per interesse, sapendo che le regole avrebbero soltanto limitato il loro potere di indirizzare il mercato a proprio vantaggio. La realtà ha dimostrato che, senza regole, la società globale dell’informazione che ci attende sarà ben grama, basata sull’arbitrio di attori che non rispondono a nessuno e sul dominio di chi dispone delle migliori potenzialità tecniche.
Da alcuni anni, nelle sedi delle Nazioni Unite, ci si chiede quali possano essere le forme di governo adatte a questa nuova era. Ora, la caratteristica fondamentale di Internet, che la differenzia dalla televisione e dal telefono, è la bidirezionalità ; la libertà di iniziativa attribuita ai suoi utenti, che possono usarla per trasmettere i propri contenuti e distribuire le proprie innovazioni, senza attendere l’approvazione di una telco o di un ministero.
In un’era in cui tutto è correlato con tutto e in cui miliardi di persone possono agire direttamente, l’unica forma di governo che funziona è il consenso: la creazione di sforzi collaborativi in cui attori di tipo diverso – nazioni, aziende, NGO, singoli individui – spingano volontariamente nella stessa direzione. Da sempre, gli standard tecnici della rete nascono in questo modo; è possibile che nello stesso modo nascano anche le sue regole sociali?
Questa è la sfida dell’Internet Governance Forum, una conferenza ONU che rompe con le paludate strutture del passato, ammettendo a partecipare sullo stesso piano il rappresentante della Repubblica Popolare Cinese e Vint Cerf, Microsoft e un hacker giapponese; con la convinzione che le soluzioni ai problemi del mondo possano venire solo con un confronto aperto di idee tra tutti gli interessati, e con un lungo processo di costruzione di consenso.
Nel più pieno spirito della rete, all’IGF entità molto diverse tra loro cominciano a capirsi, e a trovare punti di contatto: nascono così le coalizioni dinamiche, gruppi eterogenei ed aperti di partecipanti che condividono un obiettivo, o anche solo la volontà di discutere un argomento. In rete, il progresso si verifica quando una quantità sufficiente di persone capaci è sufficientemente motivata da farlo avvenire; la chiave del futuro non è quindi tanto il gioco della diplomazia o l’imposizione di leggi, quanto la facilitazione di un incontro tra persone capaci e motivate. Questo è appunto lo scopo delle coalizioni dinamiche.
Certo, non tutto l’esperimento funziona a dovere; proprio per le resistenze di chi tradizionalmente domina la società e l’economia di Internet – Stati Uniti in testa – l’IGF è privo della capacità di ufficializzare risultati; molte coalizioni dinamiche sono ancora in uno stato embrionale.
Tuttavia, un’idea ha raccolto finora ampi consensi: quella lanciata da Stefano Rodotà , ossia lo sviluppo di una Carta dei Diritti della Rete. Si tratta di una Carta che però non è affatto la riproposizione delle Costituzioni monolitiche del secondo millennio; è invece l’evoluzione dei processi sfilacciati e distribuiti che hanno portato all’Unione Europea, basandosi sull’idea della coalizione dinamica: raggiungere accordi specifici e codificarli per compiere un piccolo passo in avanti, grazie al patrocinio ONU e sperabilmente all’istituzione di un Alto Commissario sulla questione.
Passo dopo passo, il risultato sarà quindi un corpus di documenti tra loro eterogenei, ognuno pieno di eccezioni e di idiosincrasie, alcuni di alto livello e alcuni di prescrizione quotidiana, alcuni approvati a livello internazionale e altri entrati nell’uso come buone prassi, ma tutti nel loro complesso tali da costituire la descrizione esaustiva dei diritti e dei doveri degli utenti della rete.
L’Italia, in questo, vive un paradosso; da una parte è in Europa il Paese più arretrato nella comprensione di questi fenomeni, e la sua crisi sociale ed economica ne è il sintomo evidente; dall’altra, tramite alcune individualità di eccellenza, è leader nelle conferenze internazionali.
E’ quindi davvero auspicabile che si crei un canale di comunicazione tra l’Italia e il mondo, attraverso un confronto costante tra la sua classe dirigente, politica e imprenditoriale, e chi comprende e disegna queste dinamiche globali. Se poi l’occasione del G8 in Sardegna si rivelerà propizia per aumentare la visibilità di questi temi anche agli occhi dei grandi del pianeta, l’Italia avrà dato un contributo storico: quello di proporre al mondo un modello alternativo di governo della globalizzazione, opposto ai ricordi neri delle strade di Genova.
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