Arrangiarsi a morire
Ieri, nella bassa mantovana, è successo questo episodio agghiacciante.
In breve: un bracciante indiano, clandestino, ha un infarto mentre lavora nel campo. Il padrone italiano, invece di soccorrerlo, si preoccupa: se gli trovano un clandestino nel campo finirà nei guai. La soluzione è nota, perché è già avvenuta decine di volte nei cantieri e nei campi di mezza Italia: si carica il corpo in macchina e lo si scarica da qualche altra parte, dove non possa essere collegato al lavoro che stava svolgendo. L’italiano però non vuole sporcare la sua bella Audi: quindi ordina agli altri indiani di recuperare il loro scassone, più atto allo scopo. Questi ci mettono due ore; e così, solo allora il corpo viene spostato, e si può poi chiamare il medico della mutua del paese (nemmeno il 118).
Peccato però che l’indiano non fosse morto; quando il medico lo trova e chiama il 118, nonostante le ore trascorse sotto il sole dopo l’infarto, è ancora vivo; morirà poco dopo. Probabilmente avrebbe potuto essere salvato, se i soccorsi fossero stati chiamati subito.
La Stampa parla di “schiavo in Padania”, e già si capisce dove vuole andare a parare: è tutta colpa dei biechi agricoltori mantovani. Indubbiamente le persone coinvolte in questo caso saranno punite duramente; l’accusa non è nemmeno omissione di soccorso, ma omicidio volontario, partendo dal presupposto che questo comportamento implichi la volontà precisa di far morire la persona (dubito che la tesi regga al processo, ma vedremo). Incidentalmente, l’accusa riguarderà non solo il padrone italiano, ma anche i clandestini che hanno collaborato, pur con l’attenuante del ricatto lavorativo.
E quindi, già mi vedo l’ondata di indignazione che attraverserà blog e giornali; si scaricherà contro questo agricoltore, ci metterà dentro un po’ di anti-leghismo o di campanilismo anti-lombardo, si parlerà di razzismo, e poi finito lì, fino alla prossima morte. Tutto qui? E’ soltanto questione di agricoltori cinici e crudeli?
Io credo di no. Il problema è più grande, deriva dalla mentalità italiana, quella del giudicare le cose in modo astratto, del concentrarsi sulle teorie ideologiche e sulle risse da talk show invece che sui problemi concreti e sulle soluzioni pratiche. Perché il problema fondamentale nasce dall’avere milioni di persone, in Italia, che lavorano nei nostri campi e nelle nostre fabbriche ma non esistono; cioè, tutti sanno che esistono, ma guai ad ammetterlo apertamente.
In un paese civile, si direbbe: bene, abbiamo questi milioni di persone, vogliamo magari evitare di attrarne troppi altri, però questi ci servono per mandare avanti l’economia; troviamo un modo di gestirli, di dargli una condizione accettabile e qualche diritto, e insieme di controllare che non facciano danno e non si dedichino al crimine, altrimenti li puniamo con severità .
Da noi, no. Le uniche proposte sul tavolo sono: da una parte, una ideologia (di destra) secondo cui l’immigrato è un criminale a prescindere, minaccia la nostra meravigliosa cultura primigenia, va preso a sputi e comunque cacciato appena possibile; dall’altra, una ideologia (di sinistra) secondo cui l’immigrato è un santo a prescindere, va accolto e tutelato e aiutato molto più di quanto non si faccia con l’italiano medio, e se delinque non importa, anzi punirlo per i suoi crimini è razzismo.
Della realtà , non frega niente a nessuno; di trovare un compromesso accettabile ed efficace, che migliori le cose per tutti, meno che meno; l’interesse si concentra sulla discussione da talk show, sempre più esasperata, tra i sostenitori delle due ideologie. Andare a vedere chi delinque e chi lavora, espellere i primi e aiutare i secondi – operazione faticosa, ma unica via per l’integrazione – pare una idea folle, che si prende regolarmente le critiche di entrambi, essendo non abbastanza razzista per quelli di destra, e non abbastanza buonista per quelli di sinistra.
E quindi, continuiamo a non far niente. Non facciamo niente per i bambini rom; certo che prendergli le impronte non è il massimo della vita, ma sarà comunque un po’ meglio che abbandonarli allo sfruttamento dei loro genitori? E non facciamo niente per i braccianti indiani, salvo poi indignarci quando, a causa del loro status di fantasmi, ci rimettono la pelle sul prato.
Indigniamoci pure verso l’agricoltore mantovano; eppure mi pare difficile che fosse lì, bello contento, a gridare “meno uno, viva i Celti!” dopo che uno dei suoi lavoratori c’era rimasto secco. Più facile che, come tutti gli italiani, cercasse in qualche modo di arrangiarsi; di non rimanere col cerino in mano, vittima sacrificale di turno per gli editorialisti dei quotidiani e per le arringhe politiche ad uso delle telecamere.
Questo è un paese che, da secoli, si arrangia in tutto; che non risolve i problemi in modo sistematico, anzi non li risolve proprio, e lascia alla fantasia di chi per sfiga se li ritrova singolarmente sulle spalle il compito di trovare una via d’uscita, alle volte simpatica, talvolta geniale, quasi sempre irregolare e ogni tanto decisamente criminosa; o di restarci preso in mezzo.
E’ un peccato che, in un mondo globale, sovrappopolato e complesso dove la società può stare in piedi solo se organizzata come un orologio, arrangiarsi non funzioni più; non si possono mettere toppe su toppe. Non sono più solo i clandestini a morire; a forza di arrangiarsi, è l’intera nostra società che muore.
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