Alle volte sei lì con te stesso e le tue domande senza risposta, tipo “Ma perché io che lavoro con i cellulari e co-possiedo una azienda di applicativi mobili vado in giro con un Nokia del 2002, mentre gente che non arriva a fine mese e non sa distinguere un browser dal solitario di Windows fa la fila di notte per comprarsi un iPhone a 100 euro al mese?”.
Alle volte invece benedici le tue scelte, tipo oggi che ero in giro in bici, sono entrato da Fnac e ho visto almeno cinquanta euro di cose da comprare, tra cui l’intera discografia dei Jethro Tull in offerta a cinque euro a CD: ok, avendoli tutti in plurime copie MP3 è puro feticismo, ma ne vale la pena; allo stesso prezzo ci sono anche i Dire Straits e a poco di più i Led Zeppelin, che a me non sono mai piaciuti più di tanto ma è un’ora che ho in testa il riff di Good Times Bad Times e non se ne vuole andare. E poi per soli ventisette euro e rotti si può comprare il mattone antologico di Cuore; ma in bici, senza zaino, non ci stava, e quindi ho risparmiato i soldi fino alla prossima visita.
Tutto questo era per introdurre il racconto di un bel giro in bici fatto domenica pomeriggio. Se non usate il mezzo, probabilmente penserete che fare un giro da diporto nel raggio di dieci chilometri da piazza Rivoli sia impossibile, trattandosi di zona pesantemente urbanizzata; ma ciò è decisamente falso. Basta un quarto d’ora di pedalata per trovarsi in mezzo all’agricoltura; io mi sono infatti diretto verso Collegno, superando il Campo Volo e il Parco Ian Gillan per infilarmi nella mossa pianura che sta tra la Dora, Collegno e Rivoli.
Ad esempio, dal cavalcavia della tangenziale che marca la fine di Collegno c’è un panorama magnifico sul Musiné, con i campi di grano in mezzo e l’antica cattedrale laica – bella quasi come le giustamente decantate OGR di via Boggio Borsellino – del Cotonificio Valle Susa. Poi si risale leggermente verso Alpignano, si piega dentro il paese e si arriva al cimitero che aggetta sul fiume (sia Collegno che Alpignano hanno il cimitero che aggetta sul fiume, sulla sponda sud, alla fine della salita che risale dal ponte del paese: si saranno messi d’accordo?).
E’ un percorso che conosco bene perché lo facevo già quando abitavo a Rivoli; e vi giuro che non sembra affatto di stare in città . Del resto, il nome Alpignano vuol dire “villaggio delle Alpi”, uno dei tanti toponimi celto-longobardi che finiscono in -gnano sparsi per tutta la bassa Europa, da Perpignano – il cui senso non ho trovato perché mi sono perso in un sito in catalano che protestava contro l’uso del termine “alpinismo” in quanto razzista verso i Pirenei – fino a Lampugnano, che vuol dire “villaggio delle macchine puzzolenti che cercano parcheggio per prendere la metro”. E quindi, sotto le Alpi si sta, con una bell’ariëtta che vien giù dalle montagne e che ogni tanto diviene un certo tifone tra i raggi della ruota.
Proprio dal cimitero d’Alpignano si può imboccare una scorciatoia, senza dover discendere fino al ponte vecchio e poi risalire una versione in sedicesimo del muro di Grammont. Basta prendere a destra e un piccolo passaggio ciclopedonale conduce al ponte del tubo, ovvero una passerella sulla Dora costruita sopra un grosso tubo di qualche acquedotto che doveva proprio attraversare il fiume. Si emerge così nelle frange orientali di Alpignano, e si può presto girare a destra verso Pianezza.
E’ lì che ho scoperto un nuovo, bellissimo percorso ciclabile costruito da pochi anni sulla riva settentrionale della Dora. Esso attraversa tutto il comune di Pianezza, da confine a confine, collegando due dei maggiori landmark del suo territorio: a ovest, la salitina dove durante l’esame di guida ho fatto una partenza col freno a mano che stanno ancora applaudendo adesso; a est, il campo di calcetto con vista tangenziale dove più volte io e l’ex staff di Vitaminic abbiamo dato spettacolo.
In pratica, dall’angolo di Alpignano si diparte una strada ciclabile larga, ben segnalata e piena di ghiaietto minimo, molto ben battuto; si percorrono due tornanti in discesa e ci si trova poi a seguire il fiume, stretti tra le sue acque e quelle di un canale di servizio che rappresenta un’opera idraulica notevole, scavata nella parete della gola, e che risale addirittura al Settecento, quando fu costruito per alimentare il filatoio che stava nella golena.
Si sbuca quindi al porto di Pianezza, proprio sotto l’antico gioiello della Pieve di San Pietro. Si attraversa una zona di antiche fabbriche e di una spettacolare casa di ballatoio costruita proprio a pelo d’acqua, dove – era domenica pomeriggio – tutti gli abitanti dei vari piani si son messi a guardarmi dai balconi; poi, dove la golena si chiude, riparte la strada ciclabile.
Questo è il punto di una delle mie grandi avventure: giunsi qui, in bici, a metà degli anni ’90, e scoprii sul fiume un’antica, instabile passerella di ferro arrugginito. L’incoscienza mi prese, e così decisi di farmela tutta, bici alla mano, sperando che il ferro non si piegasse d’improvviso scaraventandomi svariati metri più sotto in mezzo alla Dora. Non si piegò, e così io potei percorrere con successo la strada in completo abbandono che collegava l’altro lato con Bruere, passando vicino al già citato cotonificio, fino a sbattere contro un cancello chiuso, però dalla parte interna. Dovetti trovare un canonico buco nella rete per uscire, e solo allora potrei leggere qualche decina di cartelli di pericolo messi nel verso opposto; ma fu un’avventura memorabile.
Bene, ora al posto della vecchia passerella ce n’è una nuova, che racconta come quella vecchia (foto: sì era proprio lei) risalisse al 1917, in sostituzione di altre precedenti, e fosse in completo abbandono dal dopoguerra; serviva alle contadine di Bruere che venivano a lavorare nelle fabbriche di Pianezza, e, visto che l’orario di lavoro era lungo e le contadine uscivano a notte inoltrata, fu teatro di svariati stupri, rapine e ammazzamenti.
La nuova passerella è ancora chiusa in attesa della “messa in sicurezza” della strada dall’altro lato che io feci dieci anni fa (ah, che pavidi); spero che la aprano presto, perché è un bel percorso. Ho quindi proseguito sulla sponda nord, dove seguendo le abbondanti indicazioni si infila un buco sotto la tangenziale e si sbuca al ponte di Collegno.
E qui vengono le note dolenti: non mi sono accontentato, e ho tentato il bis. Già , perché anche a Collegno hanno deciso che dovevano avere un parco agricolo della Dora, con i suoi bravi percorsi ciclabili; il parco inizia davanti al cimitero, per la strada del canile da cui proviene il mio gatto. Lì c’è l’unica mappa del parco, che mostra chiaramente un percorso per arrivare a Torino, zona campo rom della Pellerina.
Di lì in poi, sono solo percorsi sterrati, fangosi, tenuti malissimo, senza una freccia che sia una, pieni di inutili cartelli modello sussidiario di quinta elementare (“scheda: che cos’è un fiume”) ma senza alcuna indicazione sulle direzioni da prendere. In pratica, il percorso per Torino finiva nella selva oscura; non volendo tornare indietro per chilometri, ho preso l’ulteriore nuova passerella sulla Dora che dovrebbe portare, a scelta, in frazione Castorama o in frazione Burger King; anche lì, zero frecce e un sacco di tracce agricole che finiscono nel nulla. Ho pedalato avanti e indietro nel fango per un’ora, auspicando malattie fulminanti per tutta l’amministrazione comunale di Collegno; alla fine l’unico modo per uscire è stato tagliare attraverso il cortile di una cascina e poi per un prato, navigando tra l’erba incolta, fino a impattare il guard-rail della statale 24.
Poi, il ritorno per via Pianezza e la Pellerina, dove un gruppo di russi ubriachissimi aveva portato un SUV fin nel cuore del parco e lo usava per sparare musica orrida a volume pazzesco, circondato a debita distanza da decine di italiani che dicevano “lo facessimo noi, i vigili ci sequestrerebbero anche le mutande”. Arrivo a casa stanchissimo, ma contento: dovreste farle più spesso, queste cose.
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