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Archivio per il mese di Luglio 2008


lunedì 14 Luglio 2008, 20:54

Singing in the rain

Di concerti bagnati ne ho seguiti parecchi, ma quello di ieri sera li batte tutti: e dire che era stata una bella giornata, tanto che ero uscito in bicicletta per mezzo pomeriggio. Quando però è calato il sole, sulla vecchia fabbrica di Collegno si è scatenata una pioggerellina; quando ci siamo avviati ai cancelli, è diventata una pioggia secca, tanto che i venditori di magliette – di cui peraltro mi chiedo da anni perché, indipendentemente dal tipo di musica e dal luogo del concerto, vengano tutti dalla stessa parte d’Italia – si sono prontamente ritrasformati in venditori di preservativi giganti, cinque euro per cinque centesimi di plastica sottilissima.

All’inizio del concerto, tuttavia, la situazione era potabile, tanto che si erano scatenati sia cori da stadio anche piuttosto sboccati contro i rari tamarri (anzi, più spesso tamarre) che insistevano nel tenere gli ombrelli aperti ostruendo la visuale a mezza platea; sia un o-o-o-o-o-o-o che ricordava un po’ il po-po-po-po-po-po dei Mondiali, ma era in realtà il riff di Black Night. I Deep Purple apprezzano e spuntano sul palco puntualissimi, alle 21 e 30 spaccate; attaccano con la stessa scaletta già sentita l’anno scorso, prima Pictures Of Home che permette a tutti di farsi un assolo, poi Things I Never Said – bonus track dell’ultimo disco il cui scopo essenziale è un ulteriore assolo di Morse -, poi Into The Fire, dove Gillan quasi fa gli acuti. Poi attaccano Strange Kind Of Woman; peccato che nel bel mezzo del primo ponte salti la luce. Loro stessi sono sorpresi e si mettono a ridere, Paice continua insieme al pubblico che cerca disperatamente di tenere vivo il concerto, ma non c’è nulla da fare.

Parte infatti un temporale pazzesco; il resto del gruppo si rifugia sotto un ombrello gentilmente offerto dallo sponsor Cantine.org, mentre io mi infilo sotto un telone da campeggio verde miracolosamente apparso in mezzo alla platea; altri scappano e tornano alle auto. Aspettiamo che passi il temporale; cinque, dieci, quindici minuti e la situazione non fa che peggiorare, un vero torrente acquatico che si rovescia su di noi, e nonostante io abbia la mantellina e sia sotto il telo impermeabile mi infradicio lo stesso. Ci vuole mezz’ora abbondante prima che i fulmini terminino e la pioggia ridiscenda a un livello accettabile. Ma è una bella mezz’ora, in cui noi resistenti sotto il telo socializziamo e ridiamo di quella situazione imprevista, e alla fine ci organizziamo pure per un lancio a testuggine, con il quale conquistiamo la quinta-sesta fila proprio sotto il centro del palco.

E così, si riparte: i Deep Purple riattaccano Strange Kind Of Woman dal preciso punto in cui l’hanno interrotta… Sono i momenti migliori del concerto, non solo Rapture Of The Deep (che è un bellissimo pezzo, ma io sono l’unico nel raggio di cento persone a conoscerla e cantarla) ma soprattutto il pezzo solista di Morse che segue subito dopo, introdotto da Gillan, che dice che farà tornare il sole. Lì, salta fuori la magia: il pubblico ammutolisce e per la parte più intima del pezzo si sente solo la chitarra che arpeggia e scaleggia e lo scroscio della pioggia. Morse – che non era in grandissima serata, cioè eccezionale come sempre, ma non particolarmente ispirato – infila però una sequenza bellissima, magari anche sporca, che deve essere difficile fare virtuosismi alla chitarra con torrenti d’acqua che arrivano giù a mezzo metro dal tuo naso e freddo e umidità ovunque, specie se tieni il plettro in quel modo. Ma è proprio l’imperfezione del tutto a renderla magnifica, un momento davvero emozionante.

Questa parte del concerto è quella che mi coinvolge di più, e non solo perché è l’unica diversa dal concerto dello scorso anno: attaccano The Battle Rages On, e anche qui pochissimi la conoscono, ma a Torino ha un senso particolare. Era infatti proprio per il tour dell’omonimo disco che erano venuti in città, credo per l’ultima volta, nel 1993: quella volta eravamo al Palaruffini e il concerto era stato pieno di laser ma privo di cuore, visto che erano già ai definitivi ferri corti con Blackmore. E’ bello che la rifacciano qui ora, e con ben altro entusiasmo.

Dopo mi fanno anche Demon’s Eye, uno dei miei classici preferiti, ed è una goduria, anche se l’assolo di Morse è insipido e, per una volta, non all’altezza del classico; meglio la scenetta di Gillan che si avvicina a Glover spalla a spalla subito prima di cantare “I don’t need you / anymore” e poi lo guarda e aggiunge “just kidding”. Segue il momento solista di Airey alle tastiere, che infila un po’ di tutto, venti secondi dell’Invenzione a due voci numero 8 di Bach, venti secondi di La donna è mobile, e mezzo minuto di Singing In The Rain, con il pubblico che ride e si rincuora; la pioggia peraltro sta scemando, anzi a questo punto ha quasi smesso. Come da canone, il solo di tastiera diventa Perfect Strangers, e così abbiamo smarcato anche il muto pozzo di tristezza.

Viene quindi il momento dei classici finali; secondo me il peggio della serata. Gillan ha finito la voce da parecchio – direi almeno dal 1985 – e si limita a mugolare qualcosa ogni tanto; gli altri cercano di coprire con assoli allungati. Space Truckin’ non ha vivacità e nemmeno tanto tiro; su Highway Star, la chitarra di Morse è a volume bassissimo e si perde quasi l’assolo; persino Smoke On The Water passa via come fosse niente di speciale. Loro salutano e io sono deluso; alla fine l’ora e venti l’hanno fatta, ma è come se mi avessero portato via il dolce quando già lo pregustavo.

E invece, si salvano in corner; tornano fuori e fanno Hush, e va decisamente meglio, la gente balla e il cielo ormai è asciutto; poi, a tradimento, attaccano Black Night, invocata per ore da tutto il pubblico. Glover cicca l’attacco del solo di tastiera, ma con grande nonchalance fa finta di aver appena inventato un nuovo arrangiamento (comunque ieri Glover ottimo, sempre presente e con belle improvvisazioni), e la canzone va via alla grande; suona come un premio, per aver resistito sotto la pioggia senza defezionare; e ce la godiamo tutta.

Insomma, si sa che i Deep Purple sono vicini ai limiti per via dell’età, e ieri tra la pioggia e gli inconvenienti non è stata la serata magnifica che era stata lo scorso anno a Los Angeles, anche se la ricorderò per la sua stranezza. E’ comunque stato un bel concerto; vale sempre la pena di vederli anche quando le cose non girano tutte al massimo, e non dubito che li rivedremo ancora in giro per un po’.

[tags]deep purple, musica, colonia sonora, collegno[/tags]

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domenica 13 Luglio 2008, 13:09

A bocca chiusa

Non so che cosa ne pensiate voi, ma io vorrei spendere due parole per la dipartita di un grande personaggio: Gianfranco Funari. E le vorrei spendere proprio sapendo che molti storceranno il naso, perché Funari è sempre stato considerato un arruffapopolo, un banfone, un pecoraio, un burino volgare e arricchito che si vestiva da lord inglese e girava con la Bentley, ma basava le proprie fortune, ben prima di Maria De Filippi, sulle massaie e sui tamarri che si insultavano in tivvù a colpi di luoghi comuni.

A me, invece, Funari è sempre piaciuto, proprio perché era così; perché in un Paese dove tutti sono ossessionati dal sembrare intellettuali, dal pubblicare libri che nessuno legge, dal rilasciare interviste colte che fanno addormentare e dal farsi chiamare Maestro anche se si è solo un onesto Pino Mango come tanti, lui preferiva essere popolare; usare le parole che usiamo tutti, comprese le parolacce, e non avere paura di dire le cose come stanno; e nel frattempo baccagliarsi qualsiasi femmina passasse in zona. E basare tutto su un’esperienza di vita vera, una vita che lo aveva portato a fare il croupier e il pugile e tante altre cose, prima di entrare in televisione.

Funari fu il primo epurato dell’era berlusconiana; prima ancora che scoppiasse Mani Pulite, parlò male di Craxi e fu cacciato da Retequattro; si inventò una cosa mai vista, cioè una syndication dal basso, registrandosi lui il suo programma e mandando le cassette a 75 piccole televisioni locali per farle trasmettere. Tornò e fu cacciato varie altre volte, tanto è vero che dal 1996 al 2007 non apparve più né sulla Rai né su Mediaset, se non qualche volta come ospite; si inventò il suo angolino, di nuovo sulle reti private, e lì rimase, facendo parlare chi pareva a lui, che fosse un antisistema come Travaglio o un democristiano come Rotondi. Non per queste epurazioni si mise a fare la vittima, o a pietire un posto da eurodeputato come Santoro; le prese, semplicemente, come la conseguenza necessaria della sua sincerità, che non intendeva abbandonare. Tirò quindi dritto per la sua strada, anzi andò pure a trovare Craxi ad Hammamet, per dargli del ladro a quattr’occhi e però capire qualcosa di quell’uomo, esattamente come voleva capire qualcosa delle casalinghe a cui dava la parola in televisione.

Questa è l’impressione che rimane: quella di una persona vera che amava la vita, che apprezzava la sua fortuna ma non per questo si considerava superiore agli altri, tanto è vero che adorava la sua Bentley, ma la usava per scorrazzare sul lungomare di Loano, mica quello di Porto Cervo.

Come per tutte le persone vere, prima o poi la fine arriva ed è dura; perché chi ama la vita trova sempre nuove cose da fare, e non vorrebbe andarsene. Eppure, anche se Funari se la tirava troppo poco per poter finire sui libri di storia, credo che saremo in molti a ricordarci di lui ancora per un bel po’.

[tags]funari[/tags]

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sabato 12 Luglio 2008, 11:52

Arrangiarsi a morire

Ieri, nella bassa mantovana, è successo questo episodio agghiacciante.

In breve: un bracciante indiano, clandestino, ha un infarto mentre lavora nel campo. Il padrone italiano, invece di soccorrerlo, si preoccupa: se gli trovano un clandestino nel campo finirà nei guai. La soluzione è nota, perché è già avvenuta decine di volte nei cantieri e nei campi di mezza Italia: si carica il corpo in macchina e lo si scarica da qualche altra parte, dove non possa essere collegato al lavoro che stava svolgendo. L’italiano però non vuole sporcare la sua bella Audi: quindi ordina agli altri indiani di recuperare il loro scassone, più atto allo scopo. Questi ci mettono due ore; e così, solo allora il corpo viene spostato, e si può poi chiamare il medico della mutua del paese (nemmeno il 118).

Peccato però che l’indiano non fosse morto; quando il medico lo trova e chiama il 118, nonostante le ore trascorse sotto il sole dopo l’infarto, è ancora vivo; morirà poco dopo. Probabilmente avrebbe potuto essere salvato, se i soccorsi fossero stati chiamati subito.

La Stampa parla di “schiavo in Padania”, e già si capisce dove vuole andare a parare: è tutta colpa dei biechi agricoltori mantovani. Indubbiamente le persone coinvolte in questo caso saranno punite duramente; l’accusa non è nemmeno omissione di soccorso, ma omicidio volontario, partendo dal presupposto che questo comportamento implichi la volontà precisa di far morire la persona (dubito che la tesi regga al processo, ma vedremo). Incidentalmente, l’accusa riguarderà non solo il padrone italiano, ma anche i clandestini che hanno collaborato, pur con l’attenuante del ricatto lavorativo.

E quindi, già mi vedo l’ondata di indignazione che attraverserà blog e giornali; si scaricherà contro questo agricoltore, ci metterà dentro un po’ di anti-leghismo o di campanilismo anti-lombardo, si parlerà di razzismo, e poi finito lì, fino alla prossima morte. Tutto qui? E’ soltanto questione di agricoltori cinici e crudeli?

Io credo di no. Il problema è più grande, deriva dalla mentalità italiana, quella del giudicare le cose in modo astratto, del concentrarsi sulle teorie ideologiche e sulle risse da talk show invece che sui problemi concreti e sulle soluzioni pratiche. Perché il problema fondamentale nasce dall’avere milioni di persone, in Italia, che lavorano nei nostri campi e nelle nostre fabbriche ma non esistono; cioè, tutti sanno che esistono, ma guai ad ammetterlo apertamente.

In un paese civile, si direbbe: bene, abbiamo questi milioni di persone, vogliamo magari evitare di attrarne troppi altri, però questi ci servono per mandare avanti l’economia; troviamo un modo di gestirli, di dargli una condizione accettabile e qualche diritto, e insieme di controllare che non facciano danno e non si dedichino al crimine, altrimenti li puniamo con severità.

Da noi, no. Le uniche proposte sul tavolo sono: da una parte, una ideologia (di destra) secondo cui l’immigrato è un criminale a prescindere, minaccia la nostra meravigliosa cultura primigenia, va preso a sputi e comunque cacciato appena possibile; dall’altra, una ideologia (di sinistra) secondo cui l’immigrato è un santo a prescindere, va accolto e tutelato e aiutato molto più di quanto non si faccia con l’italiano medio, e se delinque non importa, anzi punirlo per i suoi crimini è razzismo.

Della realtà, non frega niente a nessuno; di trovare un compromesso accettabile ed efficace, che migliori le cose per tutti, meno che meno; l’interesse si concentra sulla discussione da talk show, sempre più esasperata, tra i sostenitori delle due ideologie. Andare a vedere chi delinque e chi lavora, espellere i primi e aiutare i secondi – operazione faticosa, ma unica via per l’integrazione – pare una idea folle, che si prende regolarmente le critiche di entrambi, essendo non abbastanza razzista per quelli di destra, e non abbastanza buonista per quelli di sinistra.

E quindi, continuiamo a non far niente. Non facciamo niente per i bambini rom; certo che prendergli le impronte non è il massimo della vita, ma sarà comunque un po’ meglio che abbandonarli allo sfruttamento dei loro genitori? E non facciamo niente per i braccianti indiani, salvo poi indignarci quando, a causa del loro status di fantasmi, ci rimettono la pelle sul prato.

Indigniamoci pure verso l’agricoltore mantovano; eppure mi pare difficile che fosse lì, bello contento, a gridare “meno uno, viva i Celti!” dopo che uno dei suoi lavoratori c’era rimasto secco. Più facile che, come tutti gli italiani, cercasse in qualche modo di arrangiarsi; di non rimanere col cerino in mano, vittima sacrificale di turno per gli editorialisti dei quotidiani e per le arringhe politiche ad uso delle telecamere.

Questo è un paese che, da secoli, si arrangia in tutto; che non risolve i problemi in modo sistematico, anzi non li risolve proprio, e lascia alla fantasia di chi per sfiga se li ritrova singolarmente sulle spalle il compito di trovare una via d’uscita, alle volte simpatica, talvolta geniale, quasi sempre irregolare e ogni tanto decisamente criminosa; o di restarci preso in mezzo.

E’ un peccato che, in un mondo globale, sovrappopolato e complesso dove la società può stare in piedi solo se organizzata come un orologio, arrangiarsi non funzioni più; non si possono mettere toppe su toppe. Non sono più solo i clandestini a morire; a forza di arrangiarsi, è l’intera nostra società che muore.

[tags]mantova, indiano, clandestino, infarto, società, italia, razzismo, immigrazione, morte[/tags]

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venerdì 11 Luglio 2008, 15:45

Troppo Traffic

Probabilmente sono io che sono troppo torinese: non perdo mai una occasione per brontolare. Eppure vorrei dire qualcosa sulla querelle che si trascina da mesi sul futuro di Traffic, nata dalle dichiarazioni del sindaco Chiamparino sulla possibilità di tagliargli i fondi e trasformarlo in un evento a pagamento, e dalle ripetute reazioni scandalizzate del jet-set musicale della città, capitanato dal direttore di TorinoSette Gabriele Ferraris (vedi l’editoriale dell’altra settimana e le frecciatine nel suo articolo di oggi).

Premetto che mi sento un po’ in colpa, perché tra i diretti predecessori di Traffic c’era quel Mac Pi 48 che io e altri abbiamo organizzato per tutta la seconda metà degli anni ’90: un megaconcerto gratuito nel cortile del Castello del Valentino. Lì lo scopo e il giro del fumo erano chiari: il Politecnico ci metteva alcune migliaia di euro per il palco e il cachet degli artisti, decine di studenti ci mettevano lavoro volontario, si invitavano artisti alla portata (comunque avemmo gente di ottimo livello, a partire dal debutto live all’aperto nella storia dei Subsonica) e si faceva una gran festa, senza pretendere chissà quale raffinatezza culturale. Il rapporto coi vigili non era mai facile; oltre a tonnellate di burocrazia, ci veniva imposto un chiaro limite sul volume e il divieto tassativo di andare oltre la mezzanotte – e nonostante questo, una volta ci prendemmo una multa. Ci preoccupavamo comunque del disturbo; si trattava di una sola serata in pieno giugno, ma regolarmente riempivamo le case di volantini di scuse anticipate per il rumore e tarpavamo i mixeristi troppo allegri col volume, perché ci sembrava del tutto normale che a breve distanza abitassero persone che volessero stare il più in pace possibile.

Qualche anno dopo, ai tempi di Vitaminic, approcciammo il Comune per discutere possibili iniziative estive. Fu lì che scoprii il magico mondo dei concerti estivi: quello per cui, improvvisamente, da metà giugno a fine luglio tutte le amministrazioni pubbliche italiane decidono di voler riempire le piazze con la musica (o, in alternativa, il cabaret). Per i cantanti è un periodo d’oro: qualsiasi canaro stonato costa in quel mese e mezzo tre o quattro volte di più rispetto al resto dell’anno. Ma anche per gli organizzatori è un periodo d’oro: dovunque ci siano fondi pubblici, ci sono persone pronte a intascarli con ogni mezzo.

A Torino, in particolare, mi fu spiegato come le attività musicali estive fossero rigorosamente spartite tra tre o quattro organizzatori o “associazioni culturali”, ognuna con sufficienti connessioni politiche. Ogni tanto le connessioni di qualcuna si rivelavano non abbastanza resistenti e i fondi sparivano; fu così, per dire, che l’Associazione Culturale Barrumba al volger del millennio fu esiliata dalla città e costretta ad inventarsi il Chicobum Festival di Borgaro, che tirò avanti per sette anni senza grossi assegnazzi comunal-provincial-regionali, a dimostrare che un altro mondo sarebbe possibile, anche se l’anno scorso dovettero alzare bandiera bianca.

Tra quelli che a Torino continuano a vivere, gran parte del lavoro lo fa l’Associazione Culturale Hiroshima Mon Amour; compreso Traffic, anche se esso si è poi costituito in una sua propria Associazione Culturale Traffic, diversificando un po’ i loghi sulle richieste di assegnazzi. Traffic è un affare quasi milionario; qui, insomma, il giro del fumo comprende sovvenzioni pubbliche da (pare) centinaia di migliaia di euro, sommate a sponsor privati di dimensione simile o superiore, che servono per permettersi artisti di (vero o presunto) spessore internazionale in piena stagione di punta. Comunque, le associazioni culturali non fanno certo Traffic per cultura; per le decine di persone impegnate nell’organizzazione, si tratta di un lavoro, e come ogni lavoro va remunerato; quindi una parte di questo budget (non ho assolutamente idea di quanto) resta sicuramente nelle loro casse.

Il conseguente sospetto che quando Chiamparino e Ferraris discutono di cultura stiano in realtà discutendo di soldi è comunque legittimo; anzi, a me è venuto pure quello che stiano discutendo di politica, visto che Hiroshima, per dirne una, ha ospitato la festa finale della campagna “ribelli DS per Morgando contro Chiamparino e Bresso” dell’anno scorso, e magari il Chiampa s’è legato la cosa al dito; chissà, magari quelli di Hiroshima stanno già facendo le ricognizioni al parco Chico Mendes.

Chiaritovi quindi che quella su Traffic tutto è, meno che un’aulica discettazione sugli strumenti di diffusione della cultura e sulla loro sostenibilità, facciamo finta che lo sia e discutiamone un attimo. Ieri, verso le 22, essendo già in giro in auto, abbiamo provato ad andare al festival; peccato che nel raggio di chilometri a sud della Pellerina – un’area densamente abitata – non ci fosse un parcheggio disponibile, ma solo decine di macchine che gasavano gli abitanti girando in tondo e non sapendo dove fermarsi. Deciso che non avevo voglia di andarci a piedi, sono tornato a casa, dove sono stato poi svegliato dall’evento clou: un concerto di musica da discoteca a un volume mostruosamente alto, tanto che a casa mia, a una decina di isolati dal limite del parco, tremavano le pareti fino a mezzanotte e un quarto, anche con le finestre chiuse. Non oso immaginare chi abita più vicino…

Supponiamo comunque di riuscire ad andarci, come ho fatto varie volte negli scorsi anni. Bene, sgomitate e arrivate sotto il palco; nonostante il volume, non riuscirete a concentrarvi sulla musica. Difatti, tre quarti delle persone attorno a voi sono lì per caso, “tanto è gratis”, e passano la serata a chiacchierare e ridacchiare a voce alta; ogni tre minuti, nel bel mezzo di un brano, passa un carrettino col compressore acceso e un venditore che grida a voce altissima “cocabbirraggelatiiii…”. E’ chiaro che a Traffic, della musica, non frega niente a nessuno, se non a una minoranza di appassionati che avrebbero volentieri pagato cinque euro per godersi gli artisti in santa pace, invece che pigiati in mezzo a tutti i tamarri della città in libera uscita. Aggiungeteci che, quando il concerto finisce, si rischia la vita perché decine di migliaia di persone si accalcano in un vialetto di tre metri di larghezza, intasato di bancarelle promozionali, pur di uscire…

Insomma, Traffic è non solo insostenibile economicamente, ma è insostenibile anche ambientalmente, per chi ci vive accanto e per chi ci va. Sarà anche un elemento fondamentale della cultura torinese, come il Salone del Libro e il Film Festival, ma a questi ultimi eventi l’ingresso si paga! Gli organizzatori continuano a dire che questo è l’unico festival gratuito di grandi dimensioni in Europa; ma se nessun altro lo fa, non sarà che c’è un motivo?

Io spero che Traffic continui, però come tutte le altre rassegne: voglio dire, quelli di Colonia Sonora (aka Associazione Culturale Radar, ovviamente) si prendono qualche soldo pubblico ma non certo su questa scala, fanno pagare i biglietti, portano artisti interessanti invece di vecchi strabolliti (Sex Pistols e Patti Smith) e amici degli amici (Afterhours e Massimo Volume), e non si riempiono tanto la bocca di presunta indignazione se gli chiedono di far quadrare un po’ meglio i conti, mettere due lire di biglietto, spostarsi in un luogo con più parcheggi e meno case ed evitare di intasare e assordare mezza Torino. Suvvia, Casacci & friends: si può fare.

[tags]musica, torino, traffic, festival, soldi pubblici, rumore, hiroshima mon amour, chiamparino[/tags]

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giovedì 10 Luglio 2008, 08:54

[[Soulwax – NY Excuse]]

Non ho bene idea di che spettacolo possano fare dal vivo due belgi amanti dell’elettronica; del resto, se volete vedere gente che dal vivo sicuramente non manca di presa, è meglio incontrarsi piuttosto domenica sera a Collegno per i Deep Purple.

Ciò detto, NY Excuse dei Soulwax, con il suo andamento ipnotico e postmoderno, è uno dei pezzi migliori dell’arte elettronico-concettuale degli ultimi anni: sono quindi curioso di vederli stasera alla Pellerina per Traffic. Nel frattempo, potete mettervi anche voi in piedi e declamare: “This is the excuse that we’re making / Is it good enough for what you’re paying?”

[tags]soulwax, ny excuse, deep purple, musica, traffic, torino[/tags]

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mercoledì 9 Luglio 2008, 14:40

Siamo caduti proprio sull’uccello

Ma solo io ho pensato che la gran cagnara che hanno montato oggi tutti i giornali, criticando la Guzzanti per la volgarità degli epiteti rivolti alla strana coppia Carfagna – Ratzinger (peraltro, per la prima, gli stessi epiteti che da giorni pensa mezza Italia), sia stata accuratamente scelta per evitare di parlare del problema, ossia di come Berlusconi, ripreso il potere, abbia accelerato sulla strada dei provvedimenti legislativi ad personam, della repressione di qualsiasi dissenso e in ultima analisi della dittatura?

Il commento di Mantellini è completamente condivisibile; ma non è che quel genere di commento è proprio ciò che i giornali volevano, seguendoli sul loro tentativo di cambiare argomento?

[tags]berlusconi, guzzanti, carfagna, ratzinger, giornali, mantellini, blog, dittatura[/tags]

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mercoledì 9 Luglio 2008, 08:31

Revolution #9

(da una chat di ieri sera)

vb> l’italia è veramente piena di peracottari
vb> del tipo “so che mi cerchi e invece di dirti qualcosa non rispondo alle mail e alle telefonate”
am> si
am> fastidioso
vb> eh…
vb> con sms “ti chiamo dopo” senza mai richiamare
am> cmq sono solo io ad avere l’impressione che silvio e soci stavolta scopriranno le carte con una serie di mosse a cominciare dal rendersi impunibili forever and ever per poi implementare l’agenda della p2?
am> e che a prescindere da che azioni correttive successive potranno essere implementate questo cambiera la bilancia del potere in italia?
vb> sì ma noi ci stiamo organizzando
am> cioe’, mi pare che ci siano tutta una serie di forze che stano aspettando il via
am> e che questo ia uno dei motivi della stagnazione della nazione
vb> mah, forse è la quiete prima della tempesta
am> semplicemente perche’ i poteri economici stanno aspettando il momento propizio
am> esatto
vb> magari saranno rivolte di massa per il pane eh
am> nono
am> sto parlando di una cospirazione
am> che cerca il suo big bang da 14 anni
am> e che siccome la situazione non e’ propizia tiene tutto fermo
vb> molto più di 14 anni, sono almeno 30
am> mah
am> cioe’, mi vien da pensare… siamo cmq nel framework EU, potremmo lasciarli fare, QUANTO peggio puo’ essere?
am> che star fermi, dico
vb> lasciarli chi?
vb> la p2?
am> si
am> cioe’, non possono mettere su una dittatura
vb> mah, comunque ci sarà una riduzione progressiva del livello di vita, il massimo che puoi sperare è restarne fuori
vb> scusa, questa non è molto diversa eh
am> beh si
vb> uno mette su per scherzo una finta telefonata tra berlusconi e confalonieri e gli fanno sparire il sito in due ore…
am> sto parlando liberamente, eh
vb> sì, finchè sei irrilevante
am> nel senso… non credo che la situazione sarebbe poi cosi’ diversa, con la differenza che almeno le ruote comincerebbero a girare di nuovo
am> e magari nel tempo la ruota potrebbe girare (non le ruote, la routa)
vb> sei un po’ alla frutta, mi sa
vb> assuefazione alla mancanza di futuro
am> ecco
am> quello io volevo capire
am> non e’ che io la pensi cosi’
am> ma siamo sicuri che sia il worst case?
am> cioe’, il prolungamento di questa paralisi potrebbe essere peggio
am> cmq la mancanza di futuro e’ strutturale nel mondo
vb> peggio per chi, per cosa?
am> o almeno per una buona parte della sua popolazione, oppure per il suo livello
am> per tutti
vb> non c’è mai limite al peggio
am> ecco
am> va bene, mi hai convinto
am> pero’ che si fa?
vb> spe’ che tra un po’ te lo dico
vb> ora non c’è più spazio sul margine del foglio

[tags]beatles, berlusconi, p2, rivoluzione[/tags]

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martedì 8 Luglio 2008, 11:15

A ruote ferme

Mi è successo in questo weekend di guardare per un po’ le prove e la gara del Gran Premio d’Inghilterra: infatti ero molto stanco, e non c’è niente che faccia addormentare come la Formula Uno.

Anche in questa occasione, come in passato, mi è capitato di essere incuriosito da un fenomeno fisico semplice ma piuttosto particolare. Frequentemente capita che la regia mostri per un certo periodo le immagini in soggettiva prese dalla telecamerina posta sull’automobile stessa. Queste immagini sono piuttosto particolari, perchè, siccome la telecamera è fissata all’oggetto in movimento, esso appare fermo: in pratica la macchina non si muove, e si vedono soltanto l’agitarsi del pilota e lo scorrere della pista e del paesaggio sui bordi.

Si tratta di una condizione dinamica molto interessante, non solo perché semplifica la costruzione dell’immagine (tanto è vero che i videogiochi di Formula Uno in soggettiva sono arrivati abbastanza presto, ben prima di quelli in cui l’immagine tridimensionale è generata dall’esterno).

In questo sistema di riferimento, c’è un solo elemento del veicolo che si muove: le ruote. Esse, come da definizione, ruotano; e anche molto velocemente, visto che la velocità della ruota è uguale e contraria a quella dell’auto sul terreno. Le ruote di Formula Uno differiscono da quelle normali per tante cose, ma anche per un particolare: per ovvi motivi pubblicitari, hanno il nome del produttore scritto con grande evidenza e in bianco, sia all’esterno che all’interno.

A macchina in movimento, è impossibile leggere il nome; la ruota sta muovendosi a un paio di centinaia di chilometri orari… Ciò nonostante, si vede chiaramente il movimento di quella macchia bianca sull’interno della ruota; ed è un movimento che incuriosisce, perché agisce secondo logiche proprie. Capita infatti che mentre la macchina accelera la rotazione della macchia bianca rallenti, e a un certo punto si fermi e addirittura cominci a ruotare all’indietro! In televisione si vede benissimo; su Youtube un po’ meno a causa della compressione, ma potete vederlo ad esempio in questo filmato, almeno nei tratti in cui una delle due ruote ha la luce a favore.

Incuriosito, durante il Gran Premio mi sono messo ad elaborare un modello matematico per determinare le leggi secondo cui si muove la macchia bianca in questo particolare tipo di inquadratura.

Per prima cosa, bisogna osservare che noi non vediamo il moto direttamente, ma attraverso una telecamera; essa riprende la scena con una frequenza f. (A seconda delle tecniche di ripresa, può darsi che, anche in un singolo fotogramma, il momento in cui viene ripreso l’angolo in alto a sinistra della scena non sia lo stesso in cui viene ripreso l’angolo in basso a destra; tuttavia notiamo che, visto che la telecamera è fissata all’auto, le ruote sono sempre nello stesso punto dell’immagine, quindi ciò è per noi irrilevante.)

In questo intervallo di tempo – che è sufficientemente piccolo da poter assumere che l’auto si sposti a velocità costante, persino per le accelerazioni da Formula Uno – la scritta bianca percorre nella sua rotazione uno spazio pari a s = v*t = v/f, dove v è la velocità della vettura. Questo spostamento sarà composto da un numero intero non negativo k di rotazioni complete, più uno spostamento di posizione apparente Δp; è proprio quest’ultimo che noi percepiamo. Non ci interessa se tra un fotogramma e l’altro la scritta ha ruotato dieci volte completamente; se si ritrova nello stesso punto di prima, a noi sembrerà ferma.

Esistono quindi varie velocità – al variare del valore di k, ossia del numero di rotazioni complete compiute tra due fotogrammi successivi – per cui la scritta appare ferma. Infatti, scomponendo lo spazio percorso nel modo sopra descritto, ossia come s = k*Ï€*d + Δp, dove d è il diametro delle ruote (quindi Ï€*d è la circonferenza della ruota), la velocità per cui la ruota è ferma (ossia Δp = 0) è quella per cui v/f = k*Ï€*d con un qualsiasi valore intero di k da zero a infinito. Per k=0 la velocità è zero, ossia la scritta è ferma perché la macchina è ferma; e va bene. Per il resto, si tratta di velocità multiple di una velocità stazionaria base vs ottenuta per k=1, ossia vs = Ï€*d*f.

Se invece lo spostamento apparente Δp è compreso tra zero e metà circonferenza, ci sembrerà che la scritta si sia spostata in avanti. Le velocità v per cui la scritta appare spostarsi in avanti si ottengono quindi imponendo 0 < Δp < d*Ï€/2, ossia k*vs < v < (k+1/2)*vs per k intero da zero a infinito. Similmente, le velocità per cui la scritta appare spostarsi all’indietro sono quelle per cui d*Ï€/2 < Δp < d*Ï€, ossia (k+1/2)*vs < v < (k+1)*vs per k intero da zero a infinito.

Ipotizzando che il diametro delle ruote all’altezza della scritta sia di circa 35 centimetri, e che la frequenza di ripresa sia pari ai canonici 50 Hz televisivi, si ottiene vs = 197,9 km/h. Ottenuto questo valore, sono rimasto un po’ perplesso: difatti si tratta di una velocità piuttosto elevata, mentre guardando le immagini si vede che la velocità stazionaria viene attraversata relativamente spesso, anche in frenate piuttosto secche.

Alla fine, credo di avere risolto il problema: in effetti sulle gomme non vi è una sola scritta, ma ce ne sono due, di dimensioni più o meno simili e in posizione simmetrica rispetto al centro della ruota. Dunque è presumibile che al nostro occhio, durante la rotazione, le due scritte risultino tra loro indistinguibili, e che quindi una mezza rotazione risulti uguale a nessuna rotazione, riportando la macchia bianca nella stessa posizione. Del resto noi vediamo comunque solo la metà superiore delle ruote, mentre il resto è coperto dall’interno della vettura: quindi vediamo comunque una sola macchia bianca per fotogramma.

A questo punto, basta esprimere lo spostamento apparente come la differenza rispetto a un numero intero di mezze rotazioni, e si ottiene che valgono ancora tutte le (dis)equazioni già espresse, ma riferendole a una velocità stazionaria pari a metà di quella precedente: 99 km/h.

C’è poi una ulteriore correzione da fare: in realtà, la velocità della ruota nel punto della scritta non è pari a quella dell’auto, perché la scritta non si trova sul bordo della gomma; trattandosi di una rotazione, tra la velocità lineare della scritta e quella del bordo della gomma – e quindi dell’auto – vi è un rapporto pari a quello tra le distanze dei due punti dal centro della ruota. A occhio, sarà quindi il caso di aggiungere un 10-20% alle velocità indicate.

In pratica, quando vedete la scritta invertire il suo verso apparente di rotazione l’auto ha appena superato la soglia dei 110-120 km/h, oppure dei 220-240 km/h: un modo empirico di misurarne la velocità.

[tags]formula uno, ruote, rotazione, velocità, dinamica, tutto è ingegnerizzabile[/tags]

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lunedì 7 Luglio 2008, 10:12

A Genova fa troppo caldo

A Genova deve fare davvero caldo, perché ieri sono tutti impazziti.

Il primo episodio è quello in cui, sull’autostrada del mare, una Golf di tamarri diretti in spiaggia rimane bloccata in corsia di sorpasso dietro un ingegnere trentenne sulla sua alternativa Citroen. Lo scontro di culture è agghiacciante: i tamarri fanno i fari, suonano il clacson, chiedono di passare; l’ingegnere se la prende e non accenna a spostarsi, probabilmente andava già quasi alla velocità limite, o non aveva voglia di rimettersi in mezzo ai camion sulla corsia di destra, o semplicemente gli stavano sulle scatole i tamarri che vogliono passare a tutti i costi. Secondo il TG5, l’ingegnere risponde anzi con i gestacci.

Peccato per lui che abbia commesso un piccolo errore di calcolo: in fondo all’autostrada c’è un casello, dove le auto si devono fermare in coda. A quel punto i tre tamarri scendono e gliene danno di santa ragione, 35 giorni di prognosi; poi ripartono e vanno in spiaggia come se nulla fosse, dove vengono presi dalla Polizia.

Naturalmente sono ben contento che i tamarri finiscano in galera, però c’è da ricordare una delle prime leggi della vita di strada, insegnatami al primo giorno di trasferta dai miei compagni ultrà: se cerchi la rissa, la trovi, e te ne becchi un fracco, poi non andare a piangere dalla mamma; se invece non vuoi la rissa, non fare lo smargiasso e fila via in silenzio.

Diversa è la storia dello sfratto alla signora con figlia disabile, inviato dal Comune proprietario dell’alloggio su richiesta dei vicini, stanchi delle crisi di follia con conseguenti urla belluine in piena notte; lo sfratto è giunto di fronte al rifiuto della signora di trasferire la figlia in una casa di cura. Naturalmente Repubblica ha subito scatenato il peggior buonismo: e povera disabile, e non è giusto, e vicini stronzi, e Comune insensibile. In realtà, i disabili non devono essere discriminati per il loro stato, ma non per questo possono avere il diritto di violare le regole di convivenza civile e di rendere la vita impossibile agli altri; io troverei soltanto giusto che una persona che – non per colpa sua – non è in grado di controllare il proprio comportamento venga ricoverata in una struttura apposita. Ma evidentemente sono stronzo anch’io.

[tags]genova, rissa, autostrada, tamarri, disabili, sfratto[/tags]

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domenica 6 Luglio 2008, 09:02

Tra la rete e il West

Come lettura domenicale, vi lascio il mio articolo pubblicato su Nòva – il supplemento del Sole 24 Ore – una decina di giorni fa. Sperando che venga letto e capito… (non certo come ha fatto Mantellini, che invece di discutere il progetto si è messo a commentare una sua idea di carta dei diritti che è ben diversa da quello di cui si sta discutendo).

Poche settimane fa, quando l’Agenzia delle Entrate decise di pubblicare su Internet i redditi di tutti gli italiani, anche l’Italia scoprì un problema fondamentale: gli equilibri tra diritti raggiunti nell’era analogica non si applicano poi così bene all’era digitale. Pochi mesi prima, anche l’Estonia aveva dovuto fronteggiare una nuova sfida, quando in mezzo a una crisi politica con la Russia la sua infrastruttura di rete – e con essa il sistema bancario, quello energetico e praticamente tutta la vita nazionale – si era ritrovata sotto un attacco informatico di tipo militare, proveniente non da uno Stato ma da non meglio precisati hacker. Nel frattempo, da entrambi i lati dell’Atlantico, Parlamenti, aziende, organizzazioni e privati cittadini si confrontavano su termini nuovi e ancora tutti da definire, come neutralità della rete o diritto di accesso all’informazione.

Le cronache internazionali di questi anni sono piene di discussioni e di esempi su come i modelli di governo del pianeta, basati sulla sovranità nazionale, siano stati messi in crisi da Internet e dalla globalizzazione. Oggi un ventenne californiano può scrivere Napster e segnare il destino di una industria multimiliardaria, mentre la decisione di un motore di ricerca di retrocedere certi siti in fondo ai propri risultati può costituire uno strumento di censura globale privo di controllo.

Internet è nata col mito di un mondo senza regole; nello spirito del Far West, molti dei suoi fondatori ritenevano che la rete si potesse governare da sé. Altri, specialmente tra le grandi corporation americane, si sono accodati a questa visione per interesse, sapendo che le regole avrebbero soltanto limitato il loro potere di indirizzare il mercato a proprio vantaggio. La realtà ha dimostrato che, senza regole, la società globale dell’informazione che ci attende sarà ben grama, basata sull’arbitrio di attori che non rispondono a nessuno e sul dominio di chi dispone delle migliori potenzialità tecniche.

Da alcuni anni, nelle sedi delle Nazioni Unite, ci si chiede quali possano essere le forme di governo adatte a questa nuova era. Ora, la caratteristica fondamentale di Internet, che la differenzia dalla televisione e dal telefono, è la bidirezionalità; la libertà di iniziativa attribuita ai suoi utenti, che possono usarla per trasmettere i propri contenuti e distribuire le proprie innovazioni, senza attendere l’approvazione di una telco o di un ministero.

In un’era in cui tutto è correlato con tutto e in cui miliardi di persone possono agire direttamente, l’unica forma di governo che funziona è il consenso: la creazione di sforzi collaborativi in cui attori di tipo diverso – nazioni, aziende, NGO, singoli individui – spingano volontariamente nella stessa direzione. Da sempre, gli standard tecnici della rete nascono in questo modo; è possibile che nello stesso modo nascano anche le sue regole sociali?

Questa è la sfida dell’Internet Governance Forum, una conferenza ONU che rompe con le paludate strutture del passato, ammettendo a partecipare sullo stesso piano il rappresentante della Repubblica Popolare Cinese e Vint Cerf, Microsoft e un hacker giapponese; con la convinzione che le soluzioni ai problemi del mondo possano venire solo con un confronto aperto di idee tra tutti gli interessati, e con un lungo processo di costruzione di consenso.

Nel più pieno spirito della rete, all’IGF entità molto diverse tra loro cominciano a capirsi, e a trovare punti di contatto: nascono così le coalizioni dinamiche, gruppi eterogenei ed aperti di partecipanti che condividono un obiettivo, o anche solo la volontà di discutere un argomento. In rete, il progresso si verifica quando una quantità sufficiente di persone capaci è sufficientemente motivata da farlo avvenire; la chiave del futuro non è quindi tanto il gioco della diplomazia o l’imposizione di leggi, quanto la facilitazione di un incontro tra persone capaci e motivate. Questo è appunto lo scopo delle coalizioni dinamiche.

Certo, non tutto l’esperimento funziona a dovere; proprio per le resistenze di chi tradizionalmente domina la società e l’economia di Internet – Stati Uniti in testa – l’IGF è privo della capacità di ufficializzare risultati; molte coalizioni dinamiche sono ancora in uno stato embrionale.

Tuttavia, un’idea ha raccolto finora ampi consensi: quella lanciata da Stefano Rodotà, ossia lo sviluppo di una Carta dei Diritti della Rete. Si tratta di una Carta che però non è affatto la riproposizione delle Costituzioni monolitiche del secondo millennio; è invece l’evoluzione dei processi sfilacciati e distribuiti che hanno portato all’Unione Europea, basandosi sull’idea della coalizione dinamica: raggiungere accordi specifici e codificarli per compiere un piccolo passo in avanti, grazie al patrocinio ONU e sperabilmente all’istituzione di un Alto Commissario sulla questione.

Passo dopo passo, il risultato sarà quindi un corpus di documenti tra loro eterogenei, ognuno pieno di eccezioni e di idiosincrasie, alcuni di alto livello e alcuni di prescrizione quotidiana, alcuni approvati a livello internazionale e altri entrati nell’uso come buone prassi, ma tutti nel loro complesso tali da costituire la descrizione esaustiva dei diritti e dei doveri degli utenti della rete.

L’Italia, in questo, vive un paradosso; da una parte è in Europa il Paese più arretrato nella comprensione di questi fenomeni, e la sua crisi sociale ed economica ne è il sintomo evidente; dall’altra, tramite alcune individualità di eccellenza, è leader nelle conferenze internazionali.

E’ quindi davvero auspicabile che si crei un canale di comunicazione tra l’Italia e il mondo, attraverso un confronto costante tra la sua classe dirigente, politica e imprenditoriale, e chi comprende e disegna queste dinamiche globali. Se poi l’occasione del G8 in Sardegna si rivelerà propizia per aumentare la visibilità di questi temi anche agli occhi dei grandi del pianeta, l’Italia avrà dato un contributo storico: quello di proporre al mondo un modello alternativo di governo della globalizzazione, opposto ai ricordi neri delle strade di Genova.

[tags]nova, carta dei diritti, rodotà, igf, internet governance, globalizzazione, g8[/tags]

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