La seconda guerra fredda
Nonostante la sua accurata programmazione all’interno della settimana olimpica, la crisi georgiana ha, alla fine, avuto un buon risalto sui nostri mezzi di comunicazione. Comunque, noi italiani siamo sempre un po’ troppo buonisti, per cui i nostri reportage di guerra si concentrano sul far vedere le vecchiette che sfollano e sul gossip politico internazionale; quasi mai, quando c’è una guerra, si riesce a capire perché è scoppiata.
La Georgia è teatro di scontri costanti sin dal collasso dell’impero sovietico; si può dire che, sin dal 1991, non sia mai stata veramente in pace. Naturalmente, i media italiani non ne hanno praticamente mai parlato, se non qualche volta quando, nell’ultimo paio d’anni, i georgiani si sono lamentati del fatto che i russi gli stessero tagliando gli approvvigionamenti alimentari; per il resto, la Georgia è esistita sui nostri schermi solo per qualche sporadica apparizione come squadra materasso nei gironi europei del calcio.
Il Caucaso è una regione complicata quanto i Balcani; esattamente come nei Balcani, vi sono etnie e sotto-etnie che si guardano male da centinaia di anni, complici differenze di lingua, di religione e di provenienza storica. I russi hanno sempre adottato una politica di “divide et impera”, suddividendo il territorio e le sue etnie tra vari Stati indipendenti che però, a loro volta, erano formati da federazioni di repubbliche autonome, di modo che i costanti scontri tra i vari Stati della regione, sommati a quelli interni tra le varie repubbliche dello stesso Stato, rendessero impossibile una rivolta del Caucaso contro Mosca.
Quando l’impero sovietico collassò e la Georgia si rese indipendente, le due repubbliche autonome dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia dichiararono a loro volta l’indipendenza dalla Georgia; la prima per riunirsi all’Ossezia del Nord, che è una repubblica autonoma di pari etnia ma situata all’interno della Russia; la seconda invece era comunque a prevalenza etnica georgiana, ma per un gioco politico i suoi dirigenti cercarono l’autonomia, e negli anni finirono per ribaltare la distribuzione etnica. Di fatto, la situazione di questi due territori è da vent’anni quella che era del Kosovo fino a poco tempo fa: una indipendenza di fatto, protetta da forze armate di interposizione (che nel caso specifico erano un po’ locali, un po’ georgiane e un po’ russe), però non riconosciuta da nessuno e internazionalmente non valida; allo stesso tempo, tenuta in piedi dagli aiuti e dal potere politico di Mosca, che è giunta persino a concedere con larghezza passaporti russi agli osseti del sud in modo da poter giustificare il proprio intervento “a difesa di propri cittadini”.
Quando, qualche mese fa, su pressione degli americani (di cui la Serbia è nemica e il Kosovo è satellite) il mondo decise di riconoscere l’indipendenza del Kosovo, era facile prevedere che tutte le secessioni del mondo si sarebbero presto messe in coda. Il presidente georgiano Saakashvili, un semi-dittatore amico degli americani, ha deciso così di agire d’anticipo: ha cercato di riconquistare con la forza le due repubbliche secessioniste prima che potessero procedere sulla via dell’indipendenza ufficiale. Mosca ha reagito, e si è arrivati così allo scontro di questa settimana.
All’inizio non si capiva bene cosa stesse succedendo, ma poi la cosa è stata chiara: si tratta del primo episodio caldo di una nuova edizione della guerra fredda tra la Russia e gli Stati Uniti. Qualche sospetto è venuto quando si è scoperto che i militari georgiani si muovevano su jeep americane nuove di pacca, mentre l’esercito osseto rispondeva con aerei russi su cui la bandiera di Mosca era stata cancellata con la gomma cinque minuti prima. Quando, nemmeno tre giorni dopo l’inizio del conflitto, gli americani hanno annunciato che una colonna di marines “umanitari” era già pronta allo sbarco sulle coste del Mar Nero, ecco, è parso chiaro come tutto questo fosse, dal lato georgian-americano, preparato da mesi.
Già , ma perché? Non vi è dubbio che si tratti di una piccola guerra militare, ma di una grande guerra mediatica; mitico quando entrambi i lati hanno proclamato un cessate il fuoco unilaterale davanti alle telecamere, per poi continuare a darsele di santa ragione. Il motivo è che gli Stati Uniti devono legittimare il proprio espansionismo nel Caucaso: continuando a ragionare con la mentalità della guerra fredda, vogliono andare a controllare i russi direttamente in casa loro. Vanno letti in quest’ottica sia gli annunci sparati secondo cui “la Russia si è posta al di fuori della legittimità internazionale” (che detto da gente che negli ultimi vent’anni ha invaso due o tre nazioni sovrane fa letteralmente pisciare dalle risate), sia quelli secondo cui la Georgia e l’Ucraina entreranno presto nella NATO, sia l’ultimo annuncio, quello che prevede l’installazione di missili americani in Polonia, praticamente alle porte di Mosca.
Quest’ultima notizia è passata un po’ sotto silenzio, ma è ancora più preoccupante, per due motivi: il primo è che per Mosca è una chiara provocazione che non passerà ignorata. Il secondo è che rappresenta l’ennesimo schiaffo della Polonia all’Unione Europea, visto che la politica estera dell’Unione andrebbe decisa insieme e che dubito molto che l’Europa abbia alcun interesse a schierarsi così apertamente contro la Russia. Arrivati da poco, i polacchi si sono subito distinti per aver preso l’Unione come un bancomat: ringraziano tanto per gli aiuti economici, ma quando c’è da fare qualsiasi concessione o da ragionare su interessi comuni fanno sempre e soltanto i fatti loro.
Proprio il ruolo dell’Europa in questa vicenda è, al solito, controverso. E’ andata un po’ meglio del solito, visto che Sarkozy ha avuto il buon senso di muoversi subito e accreditarsi fin dal principio come il massimo mediatore; peraltro anche questo potrebbe essere stato uno sviluppo calcolato in anticipo, visto che Sarkozy e Putin si piacciono (tra veri uomini ci si capisce). Dopodiché, però, l’Unione si è dimostrata al solito incapace di pesare davvero; il conflitto alle porte ha causato il solito megaincontro svogliato dei ministri europei, in cui si è distinto alla grande il nostro Frattini non andandoci nemmeno: per lui, la ripartenza della Guerra Fredda non è un motivo sufficiente per interrompere le vacanze alle Maldive.
Una Europa seria avrebbe la capacità , la credibilità e il peso per appendere al muro entrambe le superpotenze, spiegandogli che non è assolutamente il caso che si pestino nel giardino di casa nostra. Purtroppo, l’Europa è ancora un supercondominio dove tutti stanno insieme a parole, ma poi sono troppo impegnati a litigare sul conto della pulizia scale per riuscire a presentarsi seriamente all’esterno.
E ora, cosa succederà ? Non so, non sono un esperto, ma Mosca ha il coltello dalla parte del manico; non solo può lasciare al freddo mezza Europa, ma ha mostrato peso militare e ha ricacciato i georgian-americani più indietro di prima. Gli americani, invece, sono un gigante dai piedi d’argilla: continuano a comportarsi come se fossero i padroni del mondo, grazie al loro indubbio dominio militare, ma hanno le pezze al culo, sono pieni di debiti quasi come gli italiani e la loro economia ha un futuro piuttosto dubbio. Se a russi e cinesi girasse di smettere di comprare i loro debiti, gli americani chiuderebbero baracca entro breve.
Per questo motivo, la seconda guerra fredda potrebbe finire molto diversamente dalla prima. La prima guerra fredda è stata vinta dagli americani sul piano economico, sfruttando il limite teorico del comunismo: l’incapacità di un sistema economico a pianificazione centrale ad evolversi a velocità comparabile con uno basato sulla libera iniziativa personale. Ora, però, Russia e Cina hanno capito il trucco; da quando Putin ha preso a mazzate nei denti la mafia che era fiorita tra una ciucca di Eltsin e l’altra, l’economia russa ha cominciato a galoppare; della Cina già sappiamo. Chissà che questi paesi non vincano la seconda guerra fredda sfruttando il limite teorico del capitalismo: l’incapacità di un sistema basato sulla libertà personale di sfruttare la propria manodopera quanto un sistema autoritario e collettivista.
Nessuno sa, in tutto questo, quale sarà il ruolo dell’Europa: per ora essa sta mettendo insieme il peggio dei sistemi capitalisti con il peggio di quelli socialisti, unendo bassa innovazione e bassa produttività e finendo dritta verso la recessione; e non è stata in grado di giocare il ruolo politico che invece le spetterebbe. Forse, tra un’edizione e l’altra di “scriviamo un incomprensibile trattato di duecentocinquanta pagine per poi farcelo bocciare da questo o quel paese membro”, sarebbe il caso di arrivare a una proposta chiara e convincente su questi piccoli particolari.
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