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domenica 10 Agosto 2008, 16:10

Cinesi all’italiana

Si è sparsa in un lampo, ieri pomeriggio, la notizia secondo cui i provider italiani stavano provvedendo a censurare The Pirate Bay, il sito svedese che costituisce il più noto aggregatore mondiale di file torrent – i file che, semplificando, contengono i link che permettono lo scaricamento di film, musica e programmi dalla rete peer-to-peer BitTorrent. L’utente che scarica i file commette spesso violazioni del copyright (ma anche no, visto che su queste reti esistono anche molti file resi liberamente disponibili dagli autori); se ne sia responsabile chi fornisce i link che permettono tale operazione, è un altro paio di maniche. L’industria della musica lo vorrebbe, ma in Svezia la legalità di questo sito è stata più volte confermata.

Per qualche ora si è cercato di capire: pare che un magistrato italiano – il pubblico ministero Giancarlo Mancusi, già responsabile di indagini su altri siti del genere, che avevano portato al loro sequestro – abbia inviato ai provider un qualche provvedimento che li vincola a censurare il sito. I provider hanno aderito alla spicciolata; stando alle verifiche organizzate in rete, alcuni hanno provveduto a rendere inaccessibile il suo record DNS, mentre altri hanno bloccato il traffico diretto al suo indirizzo IP, e altri ancora non hanno fatto nulla, forse perché non hanno ricevuto alcuna ordinanza.

Già questo fa capire che questa storia è una barzelletta, visto che, a seconda del provider che vi capita, potreste vedere il sito oppure no. Si sa poi che questi provvedimenti sono inefficaci: e difatti, nel giro di poche ore gli svedesi di The Pirate Bay hanno cambiato l’indirizzo IP e si sono resi accessibili anche al nuovo indirizzo http://labaia.org/, in questo modo aggirando entrambi i tipi di blocco. Hanno poi pubblicato un duro comunicato accusando l’Italia di fascismo; in effetti, abbiamo un Presidente del Consiglio che è anche proprietario del maggiore conglomerato mediatico del Paese, che ha appena fatto causa a Google e che ha soltanto da guadagnare dalla chiusura dei siti che permettono forme alternative di distribuzione dei media.

Il vero problema, però, è che nessuno capisce cosa sia successo dal punto di vista legale. La legge italiana permette alla polizia postale di obbligare i provider a censurare dei siti, ma soltanto in caso di pedopornografia o di gioco d’azzardo non autorizzato. In questo caso, l’unica ipotesi credibile pare che questo giudice abbia ordinato il sequestro preventivo del sito in quanto strumento per commettere reati; ma un sequestro è un provvedimento oppugnabile che va inviato al responsabile. In base a cosa il giudice possa sequestrare un sito obbligando dei terzi a renderlo inaccessibile sfugge a qualsiasi comprensione giuridica.

Inoltre, è chiaro che questo provvedimento danneggia anche gli utenti finali; milioni di utenti Internet italiani che improvvisamente si ritrovano privi della possibilità di accedere a un sito, pur pagando un regolare abbonamento a Internet, che dovrebbe permettere di accedere a qualsiasi sito della rete. Come è possibile per un utente difendere i propri diritti, contro un provvedimento che non si sa cosa dica, a chi sia indirizzato, dove sia stato emesso? Il giudice aveva il potere di ordinare questa censura, e in base a cosa? Se non ce l’aveva, ed è stata una libera iniziativa dei provider, come faccio a denunciare la violazione del contratto di accesso?

Insomma, ciò che lascia davvero scoraggiati è che non siamo nemmeno buoni a censurare i siti in modo ben organizzato; un giudice di Canicattì o di Roccaperetola si sveglia e decide che un sito deve essere cancellato dalla rete, senza alcun contraddittorio o verifica; dopodiché i provider un po’ alla spicciolata fanno quel che vogliono, alcuni censurano in un modo, altri nell’altro, altri non fanno proprio niente; dopo mezz’ora il blocco è aggirato e il mondo ci ride dietro; nel frattempo il cittadino resta lì, con la propria libertà di informazione offesa (almeno teoricamente) e senza saper bene che fare. Cinesi, insomma, ma all’italiana.

Cercheremo di capire meglio come possa stare in piedi (se lo sta, e ne dubito) questo misterioso provvedimento; nel frattempo, chiunque si trovasse il sito oscurato farebbe bene a scrivere al proprio provider e lamentarsi duramente. Non paghiamo certo l’abbonamento ADSL per lasciare che il nostro provider decida a piacimento cosa farci o non farci vedere; almeno su questo, è il caso di insistere.

[tags]internet, pirate bay, censura, giudici, italia, cina[/tags]

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6 commenti a “Cinesi all’italiana”

  1. Jazzica:

    Proprio ieri sentivo in tv la proposta di vietare di fumare in macchina….se così fosse, i fumatori in teoria dovrebbero pagare meno soldi per il bollo, visto che trattasi di tassa di proprietà, dove a mio avviso per proprietà si “dovrebbe intendere” un luogo appartenente a chi ha tirato fuori i soldini per acquistarla, con la sua massima libertà di utilizzo [sempre compatibilmente col codice della strada, of course!!]…..quindi, in linea di principio, se il provider limita a sua discrezionalità alcuni accessi, “dovrebbe” anche adeguare la tariffa richiesta alle limitazioni imposte, secondo il noto principio del “do ut des”…peccato che i buoni principi vengano spesso applicati a senso unico e che i contratti fatti con le multinazionali siano il più delle volte modificabili solo unilateralmente, laddove la parte lesa è sempre e solo l’utente che paga!!!!

  2. simonecaldana:

    ti verra’ rimborsato 1/2^32 del tuo abbonamento per i giorni di disservizio :)

  3. MailMaster C.:

    Per la cronaca, Fastweb ha bloccato l’accesso diretto e anche l’alternativa.
    Scrivo ma non sono molto fiducioso.

    Mandi

  4. Ciny2:

    MailMaster, se Fastweb ha bloccato IP del sito, rendendo inutile l’utilizzo di un DNS alternativo, Basta usare un proxy per aggirare il blocco, oppure usare software come TOR.

  5. D# AKA BlindWolf:

    Provvedimento molto atipico, specialmente se consideriamo anche questo:
    http://www.minotti.net/2008/08/15/pubblico-e-privato-cosi-non-va/

  6. vb:

    In breve, siamo nella merda (di polizia, anzi no, di magistratura).

 
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