Un grande Paese
Probabilmente, voi del Messico avete in testa l’immagine vista nei film: deserto e calore, sombreri pigri a fare la siesta, oppure città degradate, traffico e inquinamento, violenza di ogni genere, destini in fuga dall’ordine americano verso l’anarchia misteriosa del mondo latino. Bene, il Messico è esattamente così: ma è anche completamente l’opposto.
Oggi, per esempio, sono uscito da una riunione verso le undici, e la giornata era meravigliosa: c’erano una ventina di gradi, un sole che spaccava le pietre e un vento intenso e rinfrescante. Sembrava di essere al mare a giugno, e invece siamo in inverno e a quasi duemila metri di altitudine. Quando siamo arrivati, l’organizzazione americana ci ha dato un vademecum terrificante: non uscite mai da soli dall’albergo, non prendete la metro perché vi scippano, non prendete un taxi per strada perché vi rapiscono, non portate mai dietro soldi o documenti, e quando (quando, non se) vi rapineranno consegnate subito tutto quello che avete.
E invece, io sono uscito da solo e ho trovato questo: un grande viale alberato, circondato da grattacieli ed edifici nuovissimi di vetro e cemento. Il viale, come tutte le strade principali, era stato pedonalizzato per l’intera domenica – lo fanno ogni domenica – ed era invaso da centinaia e centinaia di persone in bici, a piedi, sui monopattini, di corsa. Ogni qualche centinaio di metri c’era un punto dove il comune offre gratuitamente acqua e assistenza alle biciclette; in alcuni punti ti davano anche gratis la bici in prestito.
A metà del vialone c’era un concerto: dal palco un gruppo locale suonava rock, hip hop e crossover di stile americano, altro che mariachi, davanti a centinaia di persone. Al centro della piazza c’era un bel monumento, mentre più in là c’erano aiuole e fontane. Su un angolo, c’era una campagna per la riforestazione degli spazi attorno alla città , che spiegava come l’intero evento fosse a emissioni zero.
Ho camminato per un’ora e per un’ora ho trovato solo grattacieli, negozi moderni e alberghi in stile internazionale, tutto piuttosto nuovo; e migliaia di persone sulla strada pedonalizzata. Alla fine, ho trovato il parco: un grande parco urbano pieno di persone in gita, di bancarelle che vendono di tutto (sono stato tentato dalle maschere di lucha libre), di spazi attrezzati per il barbecue o per mangiare da uno dei vari chioschi che vendono tacos e carne alla griglia. Poi c’era un lago, dove una lunga e ordinata fila di persone aspettava di poter noleggiare una barchetta per fare un giro.
Oltre il lago e oltre il viale c’era il Museo Nazionale di Antropologia, un edificio enorme e meraviglioso, pieno di reperti dalle svariate culture che popolavano il Messico prima della Conquista; molti erano davvero belli, con le imponenti ricostruzioni di interi templi, e alcuni erano veramente eccezionali, come il gigantesco disco solare (o calendario azteco) o la statua olmeca di un giaguaro. E’ la prima volta, a parte l’Estremo Oriente, che mi trovo davanti ai resti di una cultura non europea ma pure chiaramente sviluppata almeno altrettanto della nostra: si può davvero toccare con mano che per complessità , per risultati artistici, per scienza i popoli e gli stati dell’era pre-colombiana non avevano nulla da invidiare ai nostri, a parte, purtroppo per loro, la polvere da sparo. Insomma, il Messico non ha nulla a che vedere con il Brasile, con l’Africa, con gli stessi Stati Uniti, con altre parti del mondo non europeo dove prima della colonizzazione lo sviluppo dell’umanità locale era ancora molto arretrato; dopo aver visto il museo, mi viene da accomunarlo soltanto all’India e alla Cina.
E’ una sensazione straniante: anche perché alle cineserie siamo abituati, ma quasi nessun magnate o ricercatore nostrano si è mai preoccupato di promuovere in Europa queste culture. Ci si trova insomma davanti a un’estetica raffinata ma radicalmente diversa: una forma di cultura aliena e a noi ignota, che esiste soltanto qui.
E’ evidente quindi come la cultura sia in qualche modo rimasta; il museo era pieno di ragazzi che ricopiavano le didascalie per portarsi a casa qualcosa della propria storia… e l’altro giorno in centro ho visto lunghe code non all’ingresso di un negozio di scarpe, ma davanti a una fiera del libro.
Dopo tre ore al museo sono tornato indietro, e per spregio agli americani che avevano compilato le istruzioni ho preso la metro: efficiente, ampia, discretamente pulita e facile da usare, anche perché è stata pensata per gli analfabeti, così ogni linea ha un proprio colore e ogni fermata ha un proprio logo; e allo sportello dei biglietti – umano, ma basta avvicinarsi e dire “uno”, il prezzo è di circa 10 centesimi di euro a corsa – c’è la tabella che dice quanto costa un numero di biglietti qualsiasi da 1 a 50. Costano sempre due pesos l’uno, per cui la tabella è “1 = 2$, 2 = 4$, 3 = 6$… 49 = 98$, 50 = 100$”: insomma si può viaggiare in gruppo anche senza sapere fare le moltiplicazioni.
In tutto questo giro, mai una volta mi sono sentito in pericolo; attorno a me c’era gente, tanta gente, molti con macchine fotografiche e Ipod, tutti tranquilli ed allegri a godersi la domenica di sole senza traffico. Tutto ben diverso da come ce l’avevano dipinto.
Insomma, a prima vista è un paese strano, pieno di tinte forti e di contraddizioni, sospeso a metà tra Simon Bolivar e Jennifer Lopez. Ma è senza dubbio un grande paese.
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