Politecnici
Stamattina, avendo un paio d’ore libere, ho deciso di andare a visitare il Poli di Boston; ed è stato molto interessante.
Per certi versi è molto simile al nostro: anche loro hanno un corridoio lungo, ma non è lungo quanto il nostro e soprattutto è molto più stretto; però è orientato in modo che due volte l’anno il sole lo attraversi per intero, in modo da eccitare tutti i giovani ingegneri radunati in fondo. E anche i loro corridoi sono pieni di bacheche tappezzate di bigliettini con annunci di vario genere.
Però noi non abbiamo un edificio di Frank Gehry come sede di ingegneria informatica (con dentro gli uffici di Chomsky e di Stallman), né un centro sportivo con tanto di palestra e piscina olimpionica, per non parlare di un teatro interno e di undici dormitori per gli studenti all’interno del campus, di cui uno di Alvar Aalto (ma anche questo a me piace molto).
Andrò controcorrente, ma a me è sembrato che, fatte le debite proporzioni, il Politecnico di Torino non sfiguri poi così tanto rispetto a quello di Boston – anche se bisogna ammettere che non può competere col leggendario Istituto Italiano di Tecnologia di Genova, MIT italiano fondato dalla Moratti in pompa magna quattro anni fa e che ha già rivoluzionato il mondo della scienza.
Comunque, è vero che il concetto di campus aiuta tantissimo, sia per attirare i migliori studenti da mezzo continente, sia per creare un senso di attaccamento e condivisione di un progetto: mi ha molto colpito come la guida laureanda volontaria del nostro tour (principalmente rivolto agli aspiranti studenti del prossimo anno, ma aperto anche ai turisti) continuasse a parlare dell’istituzione come “we”: “we moved into this campus in 1916”. E’ tutta un’altra idea di istruzione superiore, rispetto ai nostri esamifici dove volendo ci si può presentare tre volte l’anno per dare l’esame, restando iscritti per decenni, e non partecipando ad alcuna “vita culturale” dell’istituzione.
Nell’oretta e mezza spesa a girare per il campus mi è successo quel che già era accaduto visitando il complesso di Google a Mountain View: c’è nell’aria un senso di eccitazione, di eccellenza, di scoperta, di possibilità sconosciute da trasformare in realtà , che stimola la mente invece di legarla. E’ triste da dire, ma, in un mondo dove talento e conoscenza sono le merci più preziose e dove l’interconnessione globale elimina le distanze, c’è un premio naturale per l’aggregazione delle idee nel punto della rete dove esse vengono meglio sfruttate e ricompensate: e chiaramente non è l’Italia. Per dirla più prosaicamente, la giornata di oggi – nonché le chiacchiere di questi giorni con la nutrita colonia di emigranti sabaudi di alto livello che si è installata a Harvard e dintorni – ha riportato alla luce l’inevitabile domanda: “ma cosa cavolo ci sto a fare, io, ancora in Italia?”
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