The American way
Dunque, nel fine settimana ho guidato per 441 miglia, che poi sarebbero 709 chilometri o 417041,194 smoot (una unità di misura usata solo negli Stati Uniti e derivante da quando una fraternità dell’MIT nel 1958 usò lo studente Oliver R. Smoot come unità di riferimento per misurare la lunghezza del ponte che collega l’università a Boston; alla visita dell’MIT ci hanno detto che è stata infine riconosciuta ufficialmente dall’ANSI e probabilmente lo sarà anche dall’ISO, e a ciò non sarebbe estraneo il fatto che lo studente Oliver R. Smoot, molto dopo la laurea, è diventato il chairman di entrambe le organizzazioni).
Premetto una cosa che non vi ho detto ieri: che ovviamente io all’Avis di Cambridge ho chiesto la macchina più piccola che avevano, e che ovviamente loro hanno ottemperato, dandomi un Chrysler PT Cruiser, che per loro è una utilitaria. Per noi è una specie di camion travestito da limousine, anzi l’unica altra volta che ne avevo visto uno era stato a un matrimonio in Sicilia: la macchina per portare in chiesa lo sposo. Certo che il concetto di auto qui è proprio diverso.
Se sabato la distanza è stata agevole, trattandosi del tratto turistico e con varie soste da Boston a Provincetown, oggi mi è toccata la parte più lunga: trecento miglia da Provincetown a New York, di cui la maggior parte in autostrada attraverso quattro stati diversi (naturalmente molti americani sostengono che il Rhode Island non possa essere considerato un vero stato, ma al momento è ancora indipendente).
Siamo partiti verso le undici sotto una pioggia battente, che non ci ha impedito un minimo tentativo di vedere da dentro le dune sabbiose della punta di Cape Cod, uno spettacolo che non ho visto da alcuna altra parte e che meritava comunque il viaggio. Alle undici e mezza eravamo in strada; la contea di Stallabaracca è molto più lunga di quel che si può pensare, ed è servita soltanto da una statale che diventa ogni tanto superstrada a singola corsia, e solo verso la fine raddoppia. In pratica, l’autostrada comincia solo dopo che si è passato il gigantesco Sagamore Bridge, si è girato verso ovest e si è arrivati sul continente vero e proprio (infatti, a partire dal 1914, Cape Cod è di fatto un’isola, dopo la costruzione dell’enorme canale che ne taglia l’istmo iniziale).
Verso l’una e mezza abbiamo fatto una pausa per visitare New Bedford, che soppiantò Nantucket come capitale dell’industria baleniera nella seconda metà dell’Ottocento, per finire poi semiabbandonata come solo le città americane ex industriali possono essere. Il museo è stato interessante, ma intorno (nel fu centro cittadino) era il deserto; il fatto che fosse una domenica di pioggerella invernale non aiutava.
Siamo ripartiti alle tre e ci siamo fermati ad una delle prime uscite dell’autostrada (dato che non c’è pedaggio, in genere non ci sono aree sull’autostrada, ma indicazioni sui benzinai, fast food e centri commerciali disponibili accanto a ogni uscita) per mangiare qualcosa e fare benzina; questa è un’operazione che negli Stati Uniti mi causa sempre qualche complicazione, perché il sistema è tutto opposto al nostro. Bisogna parcheggiare a una delle pompe, entrare, allungare dei soldi alla cassa, uscire, fare benzina, ritornare dentro e prendere l’eventuale resto: in altre parole, prima pagare e poi tu vedere carburante. Io però ho mandato a male il sistema in vari modi; l’altra volta a Los Angeles avevo preso una pompa dal lato opposto a quello dove avevo il serbatoio, contando di estrarre il tubo per aggirare la macchina come faccio spesso da noi, e invece le pompe americane non si allungano e sono cortissime. Qui, invece, per non occupare la piazzola avevo parcheggiato nel piazzale, dato che dovevamo entrare e comprare anche del cibo; il fatto che io volessi della benzina per un’auto che non era già parcheggiata alla pompa ha mandato in confusione il cassiere della Shell di North Swansea, MA.
Appena abbiamo messo piede in Rhode Island, la pioggerella si è trasformata in una specie di tifone; per fortuna è bastato attraversare Providence (città che sta apparentemente venendo rasa al suolo per costruirci un maxi-raccordo autostradale nel centro) e poi entrare in Connecticut perché la pioggia smettesse. In compenso, il Connecticut è uno stato serio: a un certo punto siamo entrati in una autostrada dall’aspetto vecchissimo, probabilmente deliberata da Eisenhower in persona, tanto che sono comparsi pure gli autogrill (solo che ovviamente erano enormi McDonald’s). A un certo punto il traffico ha cominciato ad addensarsi in un serpentone; eravamo a 150 chilometri da New York e temevo che il mio incubo – un mega-ingorgo del ritorno in città della domenica sera – si materializzasse da lontano; invece poi le cose sono migliorate.
Peraltro, il carattere del traffico è cambiato visibilmente lungo il percorso. Viaggiare in autostrada negli Stati Uniti è noiosissimo: le strade sono larghe e tutti viaggiano per file parallele alla stessa velocità , cioé quella imposta dal limite di velocità più 5-10 miglia di bonus. Il limite però è fissato tra 50 e 65 miglia orarie, ossia 80-100 chilometri all’ora: più o meno la velocità che noi teniamo sui viali urbani e sulle stradine di campagna. Insomma, io proprio non ce la facevo, e in cinquecento chilometri penso di non essere mai rimasto sotto il limite di velocità per più di trenta secondi, anche se ovviamente non ho esagerato per evitare guai. In effetti sono stato frequentemente superato da auto locali, anche se nessuno esagerava con la velocità ; l’impressione è che 70-75 miglia orarie siano tollerate senza problemi, almeno sui tratti da 65, ma che se cominciassi ad andare a 80 o 90 miglia orarie (le velocità normali sulle nostre autostrade) ti troveresti presto lo sceriffo alle calcagna.
Comunque, mentre nelle campagne del Massachusetts andavano tutti lenti e paciosi sui loro SUV da sei metri, in Connecticut c’era già molto più traffico. Avvicinandosi a New York sono comparsi i primi camionisti, tutti caratterizzati da manovre assurde e nessun desiderio di dare strada: del resto, con limiti così bassi anche i camion vanno alla stessa velocità di tutti gli altri. Verso la grande mela è stato il disastro: ok, abbiamo evitato il pedaggio – qui i pedaggi si pagano solo per ponti, tunnel e poche grandi strade, e dato che in media chi esce dalla città prima o poi vi torna e viceversa, in genere si pagano in una sola direzione; nel nostro caso si pagava solo in uscita dalla città – ma le macchine, più che addensarsi, hanno cominciato a fare a portellate per reclamare il diritto di via; le strade invece hanno iniziato ad annodarsi.
Alla fine ci siamo trovati sulla Cross-Bronx Expressway, un nastro d’asfalto scavato o sopraelevato in mezzo al Bronx, pieno di curve e controcurve; a un certo punto è passata direttamente sotto un palazzo. Io dovevo beccare l’ultima uscita, la 1A, mancando la quale saremmo finiti sul George Washington Bridge, cioé direttamente nel New Jersey: non una bella prospettiva. Purtroppo però all’avvicinarsi del ponte l’autostrada impazziva: cominciavano a mettere frecce per chiederti se volevi prendere il ponte sul piano di sopra o su quello di sotto, mentre la carreggiata veniva inghiottita tra le fondamenta di strade e palazzi, con tanto di colonne in mezzo a fare da spartitraffico.
Per fortuna, proprio all’ultimo, in mezzo alla nebbia e tra le fondamenta del mondo superiore è apparsa l’uscita a doppio cavatappi che ci ha portato sulla Henry Hudson Parkway, il corso Unità d’Italia di Manhattan: un vialone a tre corsie per direzione costruito in riva al fiume, anzi a un certo punto proprio in mezzo al fiume, o così sembrava. Incredibilmente, non c’era praticamente traffico; e così verso le sette e un quarto siamo arrivati in città , e in pochi isolati sono arrivato davanti al nostro albergo, sull’angolo di Ottava Avenue & Cinquantunesima Strada.
E lì, incredibilmente, proprio all’angolo, c’era parcheggio. In piena Midtown Manhattan, a pochi isolati da Times Square. E non si pagava nemmeno: la domenica è gratis (per dire, l’autosilo all’angolo costa 25 dollari per mezza giornata). E mi son preso il gusto di fare il mio bel parcheggio parallelo a Manhattan. E son soddisfazioni.
Meno soddisfacente è stato pagare la benzina 2,50 dollari al gallone, in un Mobil sull’Undicesima Avenue, per riempire il serbatoio prima di riconsegnare l’auto all’Avis. Voglio dire, a North Swansea costava 1,93: capisco che siamo a Manhattan, però… Comunque abbiamo fatto 700 chilometri su quel bidone di auto con meno di 37 dollari di benzina: certo che è facile atteggiarsi a civiltà dell’auto con la benzina che costa così poco; peraltro l’estate scorsa erano arrivati sopra i 4 dollari al gallone…
In conclusione, è stata una esperienza interessante, soprattutto per osservare il nulla cosmico di cui è piena l’America: centinaia di chilometri di boschi tutti uguali, e poi centinaia di chilometri di aree urbane tutte uguali e prive di qualsiasi attrattiva. Per fortuna che qui ci sono delle radio decenti, che trasmettono del sano rock americano anni ’70, ’80 e ’90 a ciclo continuo, che in queste condizioni fa la sua porca figura… voglio dire, anche due settimane fa, andando in montagna, la radio aveva mandato Living On A Prayer di Bon Jovi; ma sentita sulla discesa di Ivrea non fa affatto lo stesso effetto che sentita sulla I-95 dalle parti di Stratford, CT. Ciò detto, che non vi venga mai in mente di fare l’attraversamento coast-to-coast degli Stati Uniti in auto, specialmente guidando voi: faccio fatica a immaginarmi qualcosa di più noioso sulla faccia della Terra.
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