Barri de puta
Stasera si è concluso il Free Culture Forum, anzi non proprio, nel senso che sta andando avanti in queste ore su un wiki il lavoro di stesura della dichiarazione finale; naturalmente tutte le persone di normale approccio alla vita, dopo tre giorni passati a discutere di politica e società per circa 14 ore al giorno, sono già uscite e andate a cena o ripartite per tornare a casa, dunque a scrivere il testo sono rimasti solo quelli che fremono dal desiderio di fare la rivoluzione, stampando parole di fuoco sulle loro tastiere a favore del reddito di cittadinanza e dell’idea che gli artisti debbano essere retribuiti dallo Stato esattamente come i dottori dell’ospedale; confido però che nella fase di discussione online dei prossimi giorni gli entusiasmi ideologici verranno un pelino temperati.
In parte credo che ciò derivi anche dal posto in cui ci troviamo, in pieno Barrio Chino: la parte tradizionalmente più degradata e pericolosa della città . Negli ultimi vent’anni – quelli della rinascita cittadina post-olimpica – la strategia delle autorità per gestirla è stata radicale: in una zona di vicoletti e bassifondi, costituita da palazzi di parecchi piani di metà e fine Ottocento separati solo da un paio di metri scarsi di stradina, sono stati abbattuti interi isolati per trasformarli in enormi piazze, o per sostituirli con un viale o con enormi edifici moderni, che vanno da un parcheggio rotondo foderato d’acciaio al grande complesso del museo d’arte contemporanea.
Il risultato è straniante: un San Salvario all’ennesima potenza, dove ristoranti nuovi ed elegantissimi convivono fianco a fianco con vecchi portoni graffitati e occupati da call center per immigrati, e dove le finestre degli antichi bassifondi non danno più sul vicoletto e sul palazzo di fronte, ma su larghe strade e poi su nuovi edifici di vetro e muratura perfettamente à la page.
Peccato che il collegamento tra il nostro albergo – una residenza universitaria pessimamente gestita – e l’ex negozio di alimentari dove ha sede l’organizzazione, in cui ci troviamo per pasti e riunioni, sia dato dal Carrer d’En Robador, la via del ladro, occupata giorno e notte da una densità abnorme di puttane, con il relativo magnaccia che le osserva appoggiato al muro a qualche metro di distanza. Tra ieri e oggi l’abbiamo percorsa tutta, avanti e indietro, parecchie volte: la prima parte ancora vicoletto buio pieno di piscio, la seconda più larga, moderna e pavimentata di fresco. Questa seconda parte è rimasta accanto a una gigantesca devastazione comunale in futura ricostruzione, per ora costituita solo da un solitario condominio, al cui piano terreno si trova un finto fried chicken che nonostante gli sforzi proprio non riesce a sembrare americano. Bene, ogni volta i nostri tre minuti di passeggiata sono stati uno spettacolo di donne urlanti, borsette che volavano e clienti riluttanti aggrediti al grido di “¡maricón de mierda!”. Ma non preoccupatevi, basta tirare dritto per la propria strada, salvo quando è occupata da persona che corre in direzione opposta senza guardare dove va – in tal caso meglio scansarsi.
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