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giovedì 5 Novembre 2009, 11:16

Non

Sarà capitato anche a voi, se come me siete trentenni o giù di lì, di andare a cena con gli amici di una vita. Noi siamo andati alla Trattoria Moderna di Banchette, che è in realtà un posto nuovo ed elegante dove la cucina è elaborata ma anche ottima. Abbiamo mangiato e abbiamo bevuto tutto ciò di cui ci veniva voglia – primo, secondo, formaggio e dolce, una magnum di ottimo Barolo a soli 35 euro e pure la bottiglia di passito per il finale – e abbiamo chiacchierato di ogni cosa: viaggi di qui e di là, amici e conoscenti di mezzo mondo, macchine fotografiche digitali, settimane di surf in Egitto, storie di Richi wasabi, vecchi episodi universitari, difficoltà del digitale terrestre. L’importante però non è quello di cui abbiamo parlato, ma quello di cui non abbiamo parlato.

O magari ci si arrivava col discorso, e se ne parlava anche, per pochi, rabbiosi minuti, ma per poi girare da un’altra parte e ritornare verso il surf e le macchine fotografiche; come girando per una bella città (ma finta) per poi trovarsi immancabilmente davanti al bassofondo, e svoltare subito da un’altra parte per allontanarsene, e però ritrovarcisi ancora nonostante tutti gli sforzi.

Dunque ecco di cosa non abbiamo parlato: non abbiamo parlato di quanto faccia schifo l’Italia, né di quanto ci vergogniamo ogni volta che mettiamo piede all’estero e ci troviamo in un paese civile. Non abbiamo parlato del fatto che, nonostante fossimo tutti tra i migliori laureati della più selettiva facoltà di Torino, ci troviamo qui a non sapere bene cosa fare delle nostre vite professionali, mentre gli ultimi deficienti figli di papà finiscono di distruggere la nostra economia per tremila euro al mese o vanno direttamente in televisione a fare i buffoni. Non abbiamo parlato di quanto ci sarebbe convenuto imbucarci al caldo di una scrivania qualunque, invece di cercare di costruire aziende e posti di lavoro, per essere poi inseguiti dalle pretese e dai disservizi del nostro Stato. Non abbiamo parlato delle nostre storie personali complicate da tutto, del nervosismo che ti fa litigare per un niente e dell’impossibilità di progettarsi un futuro stabile e credibile.

E soprattutto, non abbiamo parlato del nostro convivere con la sensazione di un prossimo giorno del giudizio, indefinito ma incombente, che prima o poi verrà come un’alluvione e come un’alluvione ci porterà via; e si porterà via tutto, la civiltà e l’inciviltà, il surf e le macchine fotografiche digitali, Berlusconi e le sue puttane, Marrazzo e i suoi trans, il crocefisso imposto nelle scuole tra gli applausi del maggior partito teoricamente laico di questo Paese, l’ignoranza che avanza e la razionalità che arretra, la parte di noi che è moderna e disgustata e anche quella che è italiana e lascia regolamente l’auto e la vita parcheggiate in doppia fila.

Si dice che non si fanno più aziende, non si fanno più invenzioni, non si fanno più famiglie e non si fanno più figli perché c’è la crisi economica, ma questo è inesatto: da che mondo e mondo, anche nelle condizioni di estrema povertà, le invenzioni ed i figli sono venuti fuori. Il motivo per cui non si fa più niente è che non si crede più che possa esistere un futuro, o che, se verrà, sarà migliore o almeno non troppo peggio del presente.

Io sono un pazzo e soffio contro i mulini a vento, sputo incontro alla tempesta e preparo l’arpione per una balena che forse non ci sarà mai, nel cammino solitario che conduce a cambiare il mondo, o più probabilmente alla follia. Scommetto sul futuro e non mi guardo mai le spalle, sperando che quando lo farò ci troveremo in tanti, a non esserci arresi nella battaglia della vita.

[tags]italia, trentenni, crisi, precariato, lavoro, impresa, generazione boh, famiglia, società, futuro[/tags]

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7 commenti a “Non”

  1. Lobo:

    Vitto, andarsene e cambiare paese non e’ una sconfitta. Visto che oramai sono anni che ne parli, forse sarebbe il momento di pensarci davvero.

    Aprire una bella nuova azienda in.. che so, Liechtenstein, o in Irlanda, o ovunque si possano trovare le condizioni geopolitiche adatte (manodopera mediamente specializzata, bassa tassazione, finanziamenti per le nuove aziende, ampie grey areas legislative), non e’ al di fuori delle tue capacita’ e delle tue possibilita’.

    Non e’ arrendersi, e’ cambiare le regole.

  2. for those...:

    @Lobo: IMO per cambiare le regole dovrebbe continuare a fare quel che sta tentando di fare adesso. Qui in Italia. Ciò che suggerisci tu mi pare sia più un aggirare le regole. E non solo quelle italiane visto che parli di sfruttare grey areas legislative.
    RESITERE! RESISTERE! RESISTERE!

  3. Elena:

    Io me ne stavo all’estero, ci sono stata alcuni anni, in un luogo bellissimo e in un posto di lavoro invidiabile. vero, ero a tempo determinato, però avrei potuto prolungare il contratto o trovarmene un altro altrettanto bello e interessante.

    Perchè sono rientrata?

    Ogni tanto me lo domando, qualche volta rimango senza risposta e qualche volta la risposta me la ricordo. La prima circostanza è relativa a quando ho a che fare con la burocrazia o con i servizi pubblici, i ritardi, i disguidi, i cambiamenti di programma improvvisi e ingiustificati; la seconda circostanza è quando mi illudo che posso portare qualche piccolo cambiamento anche solo nella mia realtà, qualche innovazione, insomma. Diiffiiiiicile! Ma non demordo, il lavoro da fare è tantissimo e concerne parecchi ambiti.

    Ogni tanto mi riviene voglia di scappare, ma poi penso che se fuggissimo tutti a questo Paese non rimarrebbe più niente, quindi vinco le tentazioni.

    Almeno per ora.

    Quello che per adesso mi trattiene è che qui ci sono tante battaglie da portare avanti, tanti miglioramenti da conquistarsi, all’estero molte cose sono più facili, il lavoro viene riconosciuto e la meritocrazia non è un concetto vuoto trasformato in pura demagogia.

    Quando si hanno numeri e idee, restare qui è un lavoro da duri.

  4. Alberto:

    Sì, ma poi ti viene la paura che in Liechtenstein non la facciano la misticanza di verdure, i ravioli del plin o l’anatra al ratafià della Trattoria Moderna di Banchette ed allora speri ancora che anche qui si riesca ad abbandonare il Medio Evo, senza per forza smettere di mangiare bene e vivere tranquilli, nell’illusione che le due cose siano del tutto indipendenti.

  5. Lobo:

    Alberto: tu ignori volontariamente il passo successivo. Esportare la democraz.. ehm, esportare il buon cibo nel paese in cui vuoi trasferirti. Aprire una rivendita di ravioli del plin in Liechtenstein!

    praticamente… aprire un Eataly

  6. BigFab:

    Sono contento che hai trascorso una così bella serata, ma sono ancora più contento di aver letto la tua granitica convinzione; è facile andare “in depressione” o, per lo meno, buttarsi giù sfiduciati e diventare abulici, occorre incazzarsi (diciamo un’incazzatura positiva), ringhiare e ricominciare a tuffarsi in ciò in cui si crede.
    Grazie per averci fatto parte del tuo pensiero.

  7. D# AKA BlindWolf:

    @Alberto & Lobo: praticamente come ho detto 4 anni fa a Wageningen ad una graziosa ragazza di Groningen: “Qui in Olanda è un paradiso (NdR: e non mi faccio neppure le canne!), ma se volessi stabilirmi qui dovrei aprire un ristorante.” (Il cibo era immangiabile. Mangiavamo in una Club House di studenti, ok, ma gli indigeni trangugiavano di gusto, quindi era allineato con gli standard nazionali. Pure i russi schifavano il cibo, il che è tutto dire!)

 
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