Fossi figo
Fossi figo – storica interpretazione di Elio & Le Storie Tese & Gian Luigi Morandi detto Gianni – è un inno di noi giovani vecchi: perché arriva per tutti il momento in cui la foto del documento non ci rassomiglia più. Di solito, questo evento segnala che è giunto il momento di rifare i documenti: e infatti, la mia carta d’identità è scaduta due mesi fa (il giorno dopo averla usata per depositare le liste del Movimento in Tribunale) mentre il mio passaporto scade tra un mesetto, ma va rinnovato subito in vista dell’estate.
Oddio, alla fine è anche una liberazione, perché a tutt’oggi non mi capacito come io abbia potuto girare per dieci anni negli aeroporti di mezzo mondo presentando al controllo di frontiera un passaporto con questa foto qui:
Non so esattamente a cosa stessi pensando quando è stato fatto questo scatto – era il maggio del 2000 – ma l’aria da terrorista libico è inequivocabile, con tanto di esibizione del rigoglioso pelazzo. E dunque, stavolta ero determinato a migliorare un po’ la situazione; e questa mattina era dedicata alla doppia richiesta di documenti.
Richiedere la carta d’identità è facile; basta presentarsi all’anagrafe con le foto. Richiedere il passaporto è un altro paio di maniche; servono, oltre alle foto, un versamento di 45 euro in posta e una marca da bollo da 40 euro, più una fotocopia della carta d’identità – che io, non avendola, ho sostituito con la patente. (Le istruzioni sul sito della Polizia dicono di “allegare un documento di riconoscimento valido” alla domanda, ma ho intuito da solo che parlavano di una fotocopia…).
Trovandomi in zona centrale con la mia bici, il giro inizia da Porta Nuova: ci sarà ben una macchinetta che fa le foto, no? Sì, ce ne sono due: la prima è fuori servizio mentre la seconda è accesa, ma non accetta le monete. Riflettendo sul clima di sbaraccamento che regna in Italia, mi tocca girare il centro di Torino. E girare il centro di Torino in questi giorni non è un bel vedere: più ti avvicini a piazza Castello e più incontri torme di gente brada che, agitando oggettistica kitsch di vario genere, si appresta a omaggiare un lenzuolo. Io rispetto comunque la fede religiosa, rispetto di meno i bus in divieto di sosta o al pascolo nella ZTL e i pedoni che camminano in mezzo alla strada; comunque, come direbbero a Genova, son palanche e di questi tempi non è poca cosa.
Tuttavia, non incontro macchinette da alcuna parte; vado fino a Palazzo Nuovo, ma niente. Torno su da corso San Maurizio, trovo un ufficio postale, faccio la mia solita mezz’ora di coda – credo sia prevista dalle condizioni di servizio di Poste Italiane – per pagare il bollettino, che ovviamente compilo io perché “quelli prestampati non li abbiamo”. Da un tabacchino all’angolo dei Giardini Reali, mentre un bus di pellegrini svolta a sinistra col rosso pieno dove è vietato, compro la marca da bollo; ma di macchine fotografiche ancora nemmeno l’ombra.
L’ufficio passaporti è nel commissariato proprio accanto alle Porte Palatine (il muro romano ci passa proprio in mezzo). Si riconosce perché sulla porta ci sono due grandi cartelli, “E’ NECESSARIO ALLEGARE ALLA DOMANDA LA FOTOCOPIA DELLA CARTA D’IDENTITA'” e “L’UFFICIO NON E’ TENUTO A FARE FOTOCOPIE”. Ok, è certamente qui! Ma ovviamente non c’è l’ombra di una cabina fotografica (a cosa potrebbe servire, di fronte all’ufficio che emette i passaporti per Torino e provincia?). Continuo il giro, concludendo con un ottimo tempo una manche di slalom tra i pellegrini davanti al Duomo, e infine sto per rassegnarmi, anche perché comincia a cadere qualche goccia di pioggia. Decido di fare un ultimo tentativo: ci sarà ben la macchinetta all’anagrafe centrale di via della Consolata, no?
Secondo voi? Ma no, a cosa potrebbe servire, di fronte all’anagrafe centrale di Torino? Però la signorina alle informazioni è gentilissima e mi dice che c’è una cabina dall’altro lato, in corso Valdocco angolo via Giulio. Sono duecento metri, ma adesso piove davvero. Arrivo, la cabina c’è, funziona; ma vorrai mica restare per dieci anni con i documenti con la foto di te mezzo bagnato?
Sì, vorrai. Mica ci si arrende per così poco! Fatte le foto, torno all’anagrafe, e devo dire che sono stati efficientissimi: la signorina in cinque minuti mi dota di una carta d’identità nuova fiammante. Solo è rimasta perplessa di fronte all’indicazione “capelli: neri”, squadrandomi per dieci secondi per controllare: cosa avrà voluto dire?
Tutto contento intasco la mia carta d’identità nuova fiammante; peccato che fuori ormai diluvi. Ma cosa importa, le foto ormai sono fatte; bagnato per bagnato, finiamola qui. Torno dunque fino alle Porte Palatine, dove ci sono otto persone in coda per avere il modulo, e a fianco due sportelli vuoti dove le impiegate attendono che arrivi qualcuno. Questo sì che è un vero ufficio pubblico, mica quel bel corridoio pulito e pieno di computer dell’anagrafe, dove allo sportello ci sono persino i pulsanti per esprimere la soddisfazione sul servizio (grazie Brunetta, comunque la prima volta che li ho visti ero all’aeroporto di Pechino).
La poliziotta però è gentile, alla fine mi accetta persino due foto di dimensione diversa tra loro (le macchinette ti fanno un foglio con una ventina di foto, di cui solo 4 a dimensione utile per i documenti). La patente però non le piace, io le spiego che ho una carta d’identità valida solo da un quarto d’ora, e mi fa addirittura la fotocopia (ma non sarà peculato?). Prende il tutto, mi restituisce il vecchio passaporto dopo aver tagliato la copertina, e poi mi dice che posso passare per vedere se è pronto quello nuovo… tra 40 giorni.
Vorrei dirle che in Mozambico ci avrebbero messo meno, e magari sarebbero riusciti pure a inserire nel sistema un mio indirizzo di e-mail a cui avvertirmi della conclusione della pratica, ma sarei stato ingeneroso. Speriamo solo che siano puntuali, perché poi potrei dover ancora fare un visto.
Nel frattempo, vado a festeggiare; manco a dirlo, il mio pizza al taglio preferito è pieno di pellegrini che mostrano lo sprint di una Seicento in salita; parlano una roba che sembra russo, ma a un ascolto più attento è probabilmente una sottomarca del veneto. In tre, una famiglia, ci mettono cinque minuti a ordinare tre pezzi di pizza, mentre, intrappolato dietro in coda, il pubblico degli uffici sabaudi li vorrebbe accoppare. Quando la signora chiama per l’ennesima volta la figlia (si chiama Katia, visto il volume ora lo sanno fino in piazza Solferino) per chiederle se vuole proprio la pizza con le verdure o se non preferirebbe piuttosto la margherita, che prima era una al prosciutto ma aveva già cambiato idea quattro volte, Katia si ferma e guarda il vuoto. Non sappiamo se stia avendo una visione, ma dopo un tempo infinitamente lungo Katia conferma le verdure. E’ in quel momento che alla signora cade di mano il portafoglio, e tutte le monetine rotolano per terra. San Cottolengo, aiutali tu.
Ma io ho poco da parlare; son qui che rimiro tra le mie mani le mie nuove, bellissime foto del documento. Ho scelto lo scatto migliore; degli altri due, nel primo sembrava che avessi sniffato qualcosa di pesante, mentre nel secondo evidentemente stavo ancora pensando a Katia. E così, ecco la mia foto del 2010: a metà tra un Tanaus più pettinato e un serial killer romagnolo interpretato da Andrea Roncato. Spero che invecchi in fretta.
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