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venerdì 12 Marzo 2010, 19:10

In coda

Un’ora fa, dopo essere andato a portare fino in corso Grosseto i manifesti per l’attacchinaggio a Lanzo, mi son messo in macchina per tornare a casa – normalmente, un percorso di cinque minuti.

E ci ho messo mezz’ora: sin dalla sopraelevata, tutto corso Potenza era un’unica marea di auto ferme in coda.

Stare in coda è una buona occasione per arrabbiarsi, dato che la scatoletta di lamiera in cui siamo dentro costituisce automaticamente un’armatura, e come tale ci rende pronti ad aggredire gli altri in tutta sicurezza (apparente). Ma è anche una buona occasione per riflettere.

E io riflettevo: ma cosa ci facciamo tutti qui fermi, chiusi nel nostro isolamento, molti con l’autoradio a palla per cercare di non accorgerci degli altri, della città, del mondo? Ha ragione Beppe Grillo quando dice che non sei tu che sei in coda, tu sei la coda! Ognuno di noi infatti ha la percezione che la coda sia altro da sé, un evento esterno e imponderabile che gli si piazza sulla strada, senza rendersi conto che la coda esiste perché anche noi abbiamo scelto di prendere l’auto e passare di lì proprio in quel momento.

La coda dunque è asimmetrica: si basa sul principio che tu avresti pieno diritto di usare la strada in libertà, ma ci sono degli altri rompiscatole che si sono piazzati lì per negartelo. E questa idea è dura a morire: tutti sono pronti a invocare restrizioni sul traffico, ma la maggior parte delle persone le vorrebbe solo per qualcun altro.

In realtà, proprio la coda può essere amica di noi che vogliamo il cambiamento: perché raramente si può immaginare un modo più assurdo di impiegare tempo, energia, risorse che stare fermi da soli in una scatola di latta bruciando carburante fossile vecchio di 100 milioni di anni.

[tags]città, traffico, coda, persone, energia, automobili, beppe grillo, altri[/tags]

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giovedì 11 Marzo 2010, 18:44

Ignoranti e fieri di esserlo

All’inizio pensavo quasi che fosse una cosa seria, leggendo sul giornale l’ennesima polemica pre-elettorale sulla cultura: un settore che in Italia vuol dire politica, dato che si parte dal principio che qualsiasi attività culturale debba necessariamente essere foraggiata dallo Stato.

Una volta la diatriba era tra quelli che volevano spendere più fondi pubblici nella cultura “per educare le masse” e quelli che volevano tagliare le spese “per abbassare le tasse”; poi la sinistra ha letto velocemente un bignami sulle teorie economiche del mercato e ha cominciato a dire che “la cultura ha una ricaduta economica” per giustificare non solo le attività che effettivamente portano turismo e vitalità, ma anche la continuazione delle elargizioni agli amici; dato infatti che “la cultura è per definizione in passivo”, questo è il tipico settore dove nessuno viene mai chiamato a rispondere della bontà degli investimenti pubblici.

Dunque trovo legittima la discussione sul Mao, il museo d’arte orientale aperto in pompa magna lo scorso anno con una spesa di 14 milioni di euro (di cui 11 del Comune di Torino), che ha incassato in biglietti poco più di 300.000 euro nell’anno di lancio (chissà in futuro). Allo stesso tempo non trovo sensato il calcolo fatto dai protestanti del centrodestra, tra cui l’ubiqua Barbara Bonino (per carità, anche noi attacchiamo manifesti in quantità, ma lei avrà consumato per le sue affissioni metà della foresta amazzonica), secondo cui investimento / ricavi = 43 anni dunque l’investimento è un po’ troppo a lungo termine.

Non solo è sbagliato in termini finanziari (se mai bisognerebbe confrontare con l’utile, non con l’incasso totale…), ma è sbagliato in generale, perché effettivamente un buon museo porta gente a visitare la città e dunque è una spesa pubblica che poi si moltiplica generando un ritorno sul territorio, anche in posti di lavoro, gettito fiscale e così via. Un museo poco interessante, però, no; e dunque la domanda vera – che, come ricorderete, mi ero posto anch’io visitando il Mao all’apertura – è se la collezione sia sufficientemente valida da attirare visitatori in numero commisurato all’investimento.

Alla fine però, quando sono giunto in fondo all’articolo, non ho potuto che mettermi a ridere leggendo la risposta dell’ineffabile assessore alla Cultura Fiorenzo Alfieri. Riporto il suo ragionamento per intero: “Gli autori del comunicato stampa non sono mai andati in Inghilterra o negli Stati Uniti dove l’ingresso ai musei è gratuito in quanto i musei stessi sono considerati alla stessa stregua delle scuole la cui frequenza è obbligatoria e gratuita? Cosa si dovrebbe dire in questi casi: che per rientrare nei costi sostenuti per costruire e gestire, ad esempio, il Metropolitan Museum di New York (leggermente più alti di quelli del MAO), si dovrà aspettare l’eternità?”

Insomma, la giustificazione di Alfieri è: non ha senso dividere investimento per ricavo annuale da biglietti, perché per i musei gratuiti cosa viene fuori, infinito? Lasciamo perdere il fatto che, come dicevo, economicamente questo genere di ragionamento non sta proprio in piedi; ma c’è un altro piccolo dettaglio.

Perché è vero che i musei inglesi sono generalmente gratuiti (a libera donazione), ed è una delle cose che apprezzo e che denota la civiltà di quel paese, ma negli Stati Uniti è un altro paio di maniche. In particolare, io ho visitato il Metropolitan di New York non più di un anno fa, e vi posso garantire che l’ingresso si paga e non poco. Ma non è necessario aver mosso il sedere fuori dal proprio ufficio, basta andare sul sito per scoprire che l’ingresso al museo costa 20 dollari a testa, non proprio due lire (ovviamente li vale tutti).

Dunque, se chi dovrebbe programmare l’offerta culturale della città e la sua sostenibilità economica non solo non sa fare dei conti che stiano in piedi, non solo non ha la minima idea di quanto costi entrare in uno dei più famosi musei del mondo, ma non è nemmeno capace a prendersi Internet e controllare prima di fare dichiarazioni ai giornalisti, come possiamo fare che faccia delle scelte un minimo sensate?

[tags]torino, cultura, musei, mao, alfieri, bonino, fondi pubblici[/tags]

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mercoledì 10 Marzo 2010, 20:15

Sotto la neve, il voto utile

La neve l’avrete vista sicuramente; oggi pomeriggio è virata verso la pioggia marcia, ma ieri notte era veramente intensa, e verso le due, per le vie del centro di Torino, lo spettacolo era magnifico.

Certo sarebbe stato meglio se la tormenta di neve in marzo non fosse capitata proprio nei giorni in cui dobbiamo tappezzare la città di manifesti, sia perché la campagna elettorale sta entrando nel vivo, sia perché domenica pomeriggio in piazza Castello viene Beppe Grillo e dobbiamo attirare più gente possibile; speriamo che sia l’occasione in cui tanti increduli o tante persone che su Grillo hanno preconcetti (come li avevo io anni fa) possano ricredersi e capire di persona cosa dice, senza la mediazione distorta dei giornali di parte.

Sarà un segnale ma se lo è non so bene di cosa lo sia; certo che stamattina ci siamo svegliati con un intero articolo in cui la Bresso ci critica, il che vuol dire che i sondaggi ci danno in crescita e che non siamo certo trascurabili. Prima, la tattica era quella del silenzio assoluto; se ora la Bresso rompe la consegna del silenzio e ci attacca frontalmente è perché ha in mano dei dati che le dicono che non sta funzionando. Questo non vuol dire che l’obiettivo del 3% come voto di lista sia necessariamente più facile, però è comparso in giro anche qualche sondaggio che dava il nostro candidato presidente quasi al 4%.

A questo proposito vi segnalo tuttavia che il voto disgiunto ci serve solo se ci date il voto di lista; votare il nostro presidente e poi uno dei partiti delle coalizioni non ci serve praticamente a niente, perché la soglia del 3% si applica al voto di lista. Al contrario, se siete del genere “ma se voto voi poi vince Cota che non mi piace” (scrivo Cota perché questo genere di sindrome di Stoccolma è molto più frequente negli elettori culturalmente di centrosinistra: da vent’anni l’unico argomento che il centrosinistra sa tirare fuori è “facciamo schifo ma gli altri ne fanno di più”, e si spera che prima o poi le persone se ne liberino), vi segnalo che potete fare la croce sul nostro simbolo (compreso scrivere la preferenza per qualcuno, firulì firulà) e poi anche sul nome di uno dei candidati presidente delle due coalizioni maggiori, così raggiungendo sia l’obiettivo di far vincere la coalizione meno peggio che di aiutare noi a raggiungere la soglia.

A parte questi discorsi tecnici, stasera si ricomincia: con la neve e con il vento, noi saremo in giro ad attaccare manifesti…

[tags]elezioni, regionali, piemonte, movimento 5 stelle, beppe grillo, bresso, cota, neve, manifesti, torino[/tags]

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martedì 9 Marzo 2010, 20:37

Digitale pubblico o digitale privato

Per chi ancora non ne avesse sentito parlare, volevo segnalare e invitare a firmare il Public Domain Manifesto, una iniziativa di Communia – la rete tematica europea sul pubblico dominio digitale, una iniziativa universitaria finanziata dall’Unione Europea di cui il nostro Politecnico è il coordinatore – e di tanti amici e compagni di varie battaglie digitali, a partire dal primo firmatario Philippe Aigrain.

Noi siamo talmente immersi in una cultura di copyright, diritti e regole varie che non ci rendiamo nemmeno più conto di quanto essa sia innaturale. Eppure, fino a un paio di secoli fa la protezione delle opere d’ingegno era un concetto praticamente sconosciuto, ed è solo da pochi decenni che è stato coniato il termine “proprietà intellettuale”. Come ben spiega Richard Stallman, è questo stesso termine a essere ingannevole, coniato dalle industrie dell’audiovisivo per far passare subdolamente l’idea che i pensieri siano proprietà di chi li pensa.

In realtà, una “invenzione” o una “creazione” sono il frutto del loro tempo, e si basano su di un 99% di conoscenza pregressa che risale indietro nei millenni; e, da sempre, il progresso scientifico e culturale della società si basa sulla disponibilità di quello che c’è stato prima. Con la rivoluzione industriale, si decise di premiare l’opera dell’ingegno con un monopolio temporaneo, il brevetto: chi inventa un nuovo meccanismo può sfruttarlo commercialmente in esclusiva per vent’anni, in modo da ripagarsi degli investimenti di tempo e denaro, incentivando quindi ulteriori invenzioni. Nessuno, tuttavia, aveva mai pensato che l’invenzione fosse “proprietà” di chi l’aveva inventata: si parlava solo di sfruttamento commerciale.

Questo concetto è progressivamente degenerato, arrivando invece all’idea opposta: quello che invento, quello che scrivo, quello che compongo è mia proprietà e posso non solo sfruttarlo commercialmente, ma imporre agli altri le modalità con cui lo possono usare. Specialmente al giorno d’oggi, per produzioni intellettuali il cui ciclo di vita economico è di venti-trent’anni (per i film, tranne pochi classici) o di pochi anni (per il software), succede che la proprietà sia di fatto senza fine: quando scadono i termini del copyright, la cosa non interessa più a nessuno.

Succede però, per la grande maggioranza delle opere, l’effetto opposto: dopo pochi anni non sono più commercialmente interessanti dunque nessuno le distribuisce, ma sono ancora sotto protezione e dunque non sono liberamente accessibili né utilizzabili. Per fare un esempio che conosco bene, le sigle dei cartoni animati degli anni ’70 erano destinate sicuramente all’oblio. Fu proprio la rete a metà anni ’90, con il Progetto Prometeo (di cui fui uno dei promotori), a salvarle e anzi a rilanciare quel genere di musica fino a farlo diventare un classico. Fu un atto di totale pirateria, ma alla fine portò un beneficio economico ai titolari dei diritti, perché il rinnovato interesse in quei brani volle anche dire nuove possibilità di guadagno. Eppure ricordo quando arrivò al Rettore del Politecnico una raccomandata dalla Federazione contro la Pirateria Musicale (allora diretta dall’attuale capo dei discografici italiani, Enzo Mazza) che ordinava la chiusura immediata del nostro sito (noi resistemmo e minacciammo di creare un caso, e il risultato fu un accordo: togliete i brani di Cristina d’Avena, di proprietà Mediaset, e lasciate il resto).

Eppure l’argomento è tabù: qualche anno fa, nell’ambito del gruppo di lavoro WGIG delle Nazioni Unite, mi presi il compito di scrivere il “paper” sulla questione. Giudicate voi se era di parte: penso fosse semplicemente onesto. Peccato che il rappresentante delle major americane nel gruppo di lavoro si sia sdraiato contro di esso, tanto che non fu mai pubblicato ufficialmente come risultato collettivo.

Il copyright, infatti, è un elemento fondamentale della strategia americana per mantenere la propria posizione di superpotenza economica. Forse non sapete che in tutti gli accordi commerciali bilaterali firmati dagli Stati Uniti con i paesi in via di sviluppo vengono inserite clausole che li obbligano alla protezione ossessiva della proprietà intellettuale, spesso senza nemmeno spiegargli bene cosa stanno firmando.

Probabilmente nelle ultime settimane avrete letto in rete della sollevazione generale provocata dall’avanzato stato di negoziazione dell’accordo ACTA (Anti-Counterfeiting Trade Agreement), che con la scusa della lotta alla contraffazione vuole imporre misure strettissime di controllo e repressione sulla rete, tra cui (pare) le famose risposte graduate per cui “se scarichi MP3 ti buttiamo fuori da Internet”. Il tutto – incredibile – negoziato in maniera segreta tra i governi, al di fuori del controllo della pubblica opinione e persino dei Parlamenti.

Vi invito a vedere questo video (se parlate inglese o francese); per il resto, io l’allarme l’avevo già lanciato quasi tre anni fa. Perché con “pirateria” ormai sempre più si intendono “opinioni sgradite al governo”: filmati scomodi, testi di protesta, parodie in musica che hanno spesso bisogno del materiale originale da commentare; o semplicemente, con i meccanismi introdotti per “fermare la pirateria” (ad esempio i filtri obbligatori imposti in questi mesi ai provider italiani, che vi impediscono di accedere a siti come The Pirate Bay) si può poi non solo fermare il progresso, chiedendo un obolo insostenibile ai paesi in via di sviluppo che vogliano sfruttare l’acqua calda che la multinazionale di turno ha provveduto a brevettare, ma fermare anche il dissenso.

La rete è l’unico mezzo di comunicazione non controllato centralmente; dunque è l’unica difesa della democrazia. Per questo la libertà della rete è così importante.

[tags]internet, libertà, proprietà intellettuale, contraffazione, mp3, pirateria, mediaset, pirate bay, democrazia[/tags]

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lunedì 8 Marzo 2010, 19:46

L’energia vera è il cervello

Tutti i lunedì su Radio Flash c’è una trasmissione che parla di risparmio energetico. In quella di oggi raccontavano l’esperienza di una scuola in Friuli che ha ridotto i consumi elettrici per l’illuminazione in modo molto semplice; trovandosi di fronte alla necessità di sostituire i neon vecchi di trent’anni, ha aggiunto alle nuove lampade dei sensori di luce – in modo da regolare automaticamente l’illuminazione in funzione della luce solare disponibile, ad esempio d’inverno – e dei sensori di movimento, in modo da spegnere automaticamente la luce se non c’è più nessuno nell’aula (l’insegnante segnalava come la vecchia buona regola “l’ultimo che esce da una stanza spenga la luce”, che da decenni faceva parte dell’educazione dei bambini, sia ormai quasi completamente sparita: i genitori non la insegnano più).

La cosa incredibile è l’aspetto economico: l’aggiunta dei sensori ha determinato un aumento del prezzo delle lampade solo del 10%, da 50.000 a 55.000 euro per tutta la scuola; in compenso, in questo modo la scuola ha abbattuto di un terzo la sua bolletta elettrica, che era di 800 euro al mese. In pratica, la scelta delle lampade intelligenti non solo riduce la produzione di energia – dunque riduce l’inquinamento, l’importazione di combustibile, le necessità di trasporto e così via – ma si ripaga in meno di due anni!

Eppure, sono ancora poche le scuole (ma potremmo parlare delle aziende o degli uffici pubblici) che si preoccupano di fare questo genere di investimento, o di avere una policy chiara che, per esempio, vieti di acquistare nuove lampade se non risparmiose. Paradossalmente va meglio nelle case, dove la bolletta viene pagata da chi usa le luci; per il resto, l’idea italiana che ciò che è di tutti non sia di nessuno porta al menefreghismo.

E’ proprio qui che dovrebbe eventualmente intervenire la politica, con incentivi e con regole chiare. L’energia è la prima necessità di un Paese dopo acqua e cibo, e l’Italia è un Paese che potrebbe arricchirsi con il geotermico, con il solare o con altre forme di energia rinnovabile, e che invece rimane appeso alle importazioni dall’estero (con conseguente dipendenza da personaggi come Putin e Gheddafi) o peggio si rimette a studiare il nucleare, una tecnologia ormai morta e sepolta, figlia del mito positivista degli anni ’50 (quello per cui a quest’ora avremmo già dovuto avere colonizzato lo spazio, presumibilmente per buttarci i nostri rifiuti).

Risparmiare si può e si deve: basta spegnere le luci inutili e accendere il cervello.

[tags]energia, risparmio energetico, scuole, investimenti, nucleare, energie rinnovabili[/tags]

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lunedì 8 Marzo 2010, 02:13

Meglio metterci la faccia come fosse da culo

Oggi tra noi della lista c’è stata una riunione piuttosto movimentata, sempre sul tema di quale sia il giusto rapporto tra propaganda collettiva e propaganda personale. Alla fine, siamo tornati a casa ognuno un po’ della propria idea: chi (come me) vorrebbe che tutta la propaganda personale fosse vagliata da tre o quattro persone non candidate e che venisse limitata allo stretto necessario, e chi vorrebbe potersi mettere in piedi senza limiti tutto l’armamentario del candidato classico – gadget, pubblicità spammose e faccione in giro – senza capire che, secondo me, non solo quel metodo non funziona più ma finisce per negare il motivo stesso per cui siamo qui: fare qualcosa di diverso, e – per cominciare – di più sobrio, di meno vergognosamente sprecone.

Mentre raccontavo a Elena di tutta la discussione, confessando anche un po’ di scoramento, lei ha riassunto tutto in maniera perfetta dicendomi “tu hai tutte le qualità per essere un ottimo politico, ma te ne manca una fondamentale: la faccia da culo”.

Ecco, non ci tengo ad avere la faccia da culo, però effettivamente è ora di darsi un po’ da fare e di presentarsi senza troppo pudore: per questo, anche visti tutti i vostri gentili suggerimenti di cui vi ringrazio, ho dedicato la serata all’allestimento elettorale della mia home page, nonché di una pagina biografica un po’ più discorsiva e leggibile di quella che c’era prima. Non è ancora finito, si può migliorare, ci dedicherò ancora del tempo, se possibile lo tradurrò in inglese e piemontese, aggiungerò senz’altro dei contenuti, tra cui pezzi di programma e (se appena avrò tempo) un video riassuntivo…

Da oggi, però, almeno chi capita su questo sito scopre che sono candidato: già, perché questa è l’informazione più difficile da fare circolare. Altro verrà nei prossimi giorni. Non temete, tra breve chiederò a tutti una mano – anche perché per avere successo dobbiamo avere tanti candidati ognuno dei quali porti tanti voti.

[tags]movimento 5 stelle, elezioni, regionali, piemonte[/tags]

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sabato 6 Marzo 2010, 11:50

Meglio metterci la faccia?

Oggi dovrei parlare della schifezza che è avvenuta stanotte ma non credo nemmeno che ce ne sia bisogno, è chiara a tutti no? Del resto, come sentii dire al radicale De Lucia durante la presentazione del suo libro Il baratto, già a fine anni ’80 la rivistina della corrente migliorista del PCI, di cui Napolitano era il capo, viveva grazie alla sponsorizzazione di Berlusconi: De Lucia raccontava di speciali sulle trasferte del Milan inseriti in mezzo ai numeri della rivista…

Voglio invece parlare di un’altra questione che mi tormenta da qualche giorno, e precisamente da quando uno dei miei colleghi di lista, navigando su Facebook, si è trovato davanti a un banner a pagamento di un altro nostro candidato, con tanto di faccione suo affiancato a quello di Beppe Grillo e scritta “VOTA (cognome)”. Io lì sono esploso: mi sono infuriato e ho scritto a tutto il gruppo che se questo genere di cose era tollerato io piantavo baracca e burattini su due piedi.

Sono infatti convinto che sia giusto dare spazio anche alle singole personalità e ai singoli candidati, ma che uno dei mali della politica attuale sia proprio questa ossessione di faccioni che ci guardano dai muri (fino al giorno della presentazione delle liste, perché dopo è vietato a parte nei tabelloni sui corsi) e che ci chiedono di votarli con slogan di tre parole privi di senso – spesso nemmeno con quelli, ma solo per il sorriso. Non avrei mai pensato che uno di noi potesse anche solo concepire, mentre lottiamo con le scarse risorse che ci rendono difficile anche solo far sapere che la lista esiste, di spendere tempo e soldi a farsi propaganda personale con le stesse modalità dei politici dei partiti: del resto, se avete seguito la campagna elettorale delle provinciali dello scorso anno (con il sottoscritto come candidato presidente) avrete notato che il mio volto e persino il mio nome non sono apparsi mai, né su un volantino né su un manifesto.

Dopodiché ne è seguita una lunga e accesa discussione, in cui però mi hanno fatto notare che la propaganda personale funziona; che tante persone magari poco convinte del nostro candidato presidente (che ha una immagine che definirei “peculiare”) potrebbero però votarci per conoscenza diretta o per apprezzamento di uno degli altri candidati (dunque serve non solo il nome ma la faccia, dato che sono molte più le conoscenze “di vista” di quelle basate su nome e cognome). Del resto, questa è una delle poche elezioni dove ancora sopravvive la preferenza, dove si può scrivere il cognome del candidato preferito e scegliere l’eletto da una lista non bloccata.

A questo punto mi sono chiesto cosa fare e sono arrivato alla conclusione opposta: forse è meglio se ogni candidato si fa propaganda personale in ogni modo possibile, con questo massimizzando il risultato complessivo di tutta la lista. E però, quella sensazione di disgusto per l’idea di bruciare soldi in santini e volantini personali, di vedere in giro facce in posa fintamente sorridenti anche per il nostro gruppo, mi resta. E anche tra di noi la discussione è rimasta accesa, perché chi invece resta fedele all’idea di un “gruppo senza volto” non può accettare una cosa del genere. Peraltro, noi siamo veramente un movimento: non abbiamo un “comitato centrale” o direttivo che possa facilmente dettare regole o imporre scelte di qualche genere, di solito si procede per consenso.

E dunque, essendo in dubbio, mi rivolgo a chi legge: dato che la politica passa ma le relazioni (anche quelle con chi legge questo blog da anni) restano, e la mia credibilità e la mia reputazione sono molto più importanti di un risultato elettorale, voi cosa ne pensate? E’ meglio che non mi faccia alcun tipo di propaganda personale, a prezzo di vedere andare sicuramente più avanti quelli che invece se la fanno e magari di far perdere un po’ di voti alla lista? E’ meglio che tiri fuori i risparmi e faccia vedere in giro il mio nome e la mia faccia, mobilitando amici e conoscenti? O è meglio una certa via di mezzo, che è quella che mi attira di più: ad esempio fare propaganda personale ma senza faccia o con la faccia piccola in un angolino, centrandola soprattutto sulle idee e sul programma, che poi dovrebbero essere l’aspetto centrale di una elezione?

Purtroppo, lo confesso apertamente, in una cosa del genere entrano in gioco anche un po’ di autostima e un po’ di vanità. Hai fatto tante rinunce professionali e personali, hai lavorato volontariamente per mesi giorno e notte, adesso arrivi al dunque e non solo il numero di voti della lista, ma anche il numero di preferenze personali, saranno un po’ una misura di quanto le persone apprezzino ciò che fai e ciò che dici (anche se principalmente misurano quanto hai da spendere in pubblicità… ma non del tutto, io sono convinto che la pubblicità tradizionale dei politici provochi ribrezzo mentre un buon messaggio anche se poco visto raccolga subito consensi là dove arriva).

D’altra parte, non basta dire di voler essere diversi dagli altri, bisogna esserlo veramente. In fondo, uno dei primi e più importanti punti del nostro progetto è il voler essere “dipendenti dei cittadini”, al loro servizio. E allora, ditemi voi che ne pensate.

[tags]politica, napolitano, berlusconi, elezioni, pubblicità, santini, movimento 5 stelle[/tags]

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giovedì 4 Marzo 2010, 19:25

Voglio dipiù

La scorsa settimana, come se non avessi già abbastanza da fare, mi scadeva la revisione dell’auto; così giovedì pomeriggio, in pieno caos da preparazione dei pacchetti di firme per la mattina seguente, sono dovuto andare per un’oretta dal meccanico e aspettare mentre mi facevano tutti i controlli.

Ma non è stata un’ora buttata, perché nella saletta d’attesa dell’officina ho potuto trovare e leggere una cosa fantastica: un numero dello scorso dicembre di Dipiù (Cairo Edizioni), rivista che non avevo mai preso in mano in vita mia. E siccome sospetto che non l’abbiate mai fatto nemmeno voi, lasciate che vi descriva brevemente cosa ci ho trovato.

Il numero si apre con una lunga lettera al direttore Sandro Mayer sul tema “cos’è veramente la fede?”. Il pio direttore risponde naturalmente che ognuno cercherà la propria via, ma che per farlo meglio è opportuno leggere e regalare a tutti gli amici il suo libro La grande storia di Padre Pio, o in alternativa il suo nuovo libro La grande storia di Gesù, “una narrazione trascinante che, facendo rivivere l’epoca in cui Gesù fu uomo tra gli uomini, ci accompagna con naturalezza alla scoperta del suo straordinario destino e ci porta nel cuore del mistero che continua a illuminare la Storia.”.

Si prosegue poi tra pubblicità, servizi su Amanda Knox e uno special sulla vita di Babbo Natale, per arrivare a un altro pezzo forte: quattro pagine di testo e foto che raccontano il terribile incidente automobilistico di Emanuele Filiberto – incluse foto assolutamente naturali di lui che, seduto vicino a un’ambulanza, guarda il cellulare con due cerotti sulla faccia con una espressione dolorante che ricorda le migliori prove attoriali di Raoul Bova.

I fatti sono chiari: uscito dalla sua palestra di Parigi, il principe canterino prende la sua moto senza nemmeno mettersi il casco integrale, parte, e dopo pochi metri piazza una ruota sulle strisce bianche e scivola come un pirla qualsiasi (ed è già la seconda volta che cade). La narrazione però è altra cosa: il principe ricorda come, in quei brevi attimi di paura, lui nel cuore portasse Roma, o meglio pensasse che se fosse stato a Roma ci sarebbe stato il sole e non la pioggerellina che bagna le strisce su cui si schiantano i principi; e infine chiede perdono alla moglie, di cui è profondamente innamorato, e ringrazia Dio per averlo fatto tornare senza tanti danni alla sua umile vita di miliardario a Parigi. Firmato (c’è proprio la firma) Emanuele Filiberto, anche se dalla firma sembra più Ele Fililato J. Sav I-E.

Seguono pagine e pagine di “foto delle stelle”, tra cui una in cui fisso un volto e mi dico “ma chi è questa 35enne mostruosamente brutta?”, e solo dopo due minuti, ma veramente due minuti, leggo la didascalia e mi accorgo che è una irriconoscibile Nicole Kidman: va bene voler sembrare giovani, ma meglio belle di mezza età che mostruose e sfigurate, no? Sembrava che fosse finita sotto una pialla…

La sezione continua con “gli abiti delle stelle”, foto di “attrici” sconosciute (sempre meglio attrice che igienista dentale) con una grossa scritta “a cura di Isabella Mayer”, immagino assolutamente priva di legami di parentela col direttore. Segue un “calendario delle nonne famose” di cui parte sono altrettanto sconosciute ma probabilmente mogli di chissà chi.

Giro la pagina e arriva un altro duro colpo: la rubrica “La posta di Francesco Alberoni”. Alberoni no, vi prego, c’ha oltre 80 anni, faceva tristezza già quando ne aveva 60, quando ne aveva 40 non so, non ero ancora nato.

Seguono due pagine in cui una concorrente eliminata del Grande Fratello 10 scrive una lettera aperta a un’altra concorrente. Sono i veri problemi della vita: del resto le due pagine di lettera si possono riassumere brevemente con “la prossima volta lavati”.

Sono in riserva, le energie scarseggiano, non ho la forza. Ce la metto tutta per arrivare in fondo, e giro pagina.

Basta il titolo: “La posta di Federico Moccia”.

Dove “Sara, quindicenne di Roma”, racconta che “mi sono baciata, ma baciata sul serio, con Nicolas, un ragazzo di tredici anni”. No, non sei rimasta incinta; comunque, il racconto verte sul fatto che si sono messi insieme, e all’inizio era bellissimo e lui le diceva “amore, tesoro”, ma poi il tempo è passato, e lui è diventato freddo, e non facevano più le cose insieme come prima, e insomma, alla fine lei è stata costretta a lasciarlo, dopo una settimana.

Ecco, lì non ce l’ho più fatta e ho preferito dedicarmi a qualcosa di più piacevole, tipo respirare i gas di scarico della mia auto in prova. E non ero arrivato nemmeno a metà.

[tags]dipiù, cairo, editore, riviste, sandro mayer, fede, padre pio, gesù, emanuele filiberto, alberoni, moccia[/tags]

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mercoledì 3 Marzo 2010, 11:08

Aridatece i mutandoni

Uno spererebbe che un articolo come questo fosse scritto in tono ironico, e invece no: è tutto assolutamente vero. Dalla scorsa domenica ci sono veramente delle persone che vanno a rivedersi con attenzione tutti i filmati di tutte le partite del calcio professionistico e cercano di leggere i labiali dei calciatori per capire se hanno bestemmiato o no.

Premetto che io, pur non essendo credente, non bestemmio mai, perché mi sembra una forma di doveroso rispetto per chi è religioso. Tuttavia, la bestemmia è ormai depenalizzata da tempo; dunque come si spiega la cosa? Sui campi di gioco la bestemmia è comune, trattandosi di una situazione ad alta adrenalina; ultimamente ricorderete le bestemmie in mondovisione di Buffon, gobbo e portiere, dopo un brutto errore in campo. Si è deciso così che bisognava porre un freno alla cosa, e dunque giù il pugno duro: squalifica immediata per una partita a chi bestemmia.

E va bene, però trovo già piuttosto ridicolo leggere un verbale di squalifica all’allenatore del Chievo “per avere, al 3° del secondo tempo, proferito un’espressione blasfema; infrazione rilevata da un collaboratore della Procura federale”. Come alle elementari: “maestra, il bimbo Gigi ha detto una parolaccia”. Ma è oltre i confini del ridicolo l’intera pagina dedicata al caso del giocatore Marcolini, e dunque la riporto integralmente:

Il Giudice Sportivo,

letta la rituale segnalazione del Procuratore federale, pervenuta a mezzo fax, alle ore 10.19 dell’1 marzo 2010, in merito al comportamento tenuto dal calciatore Marcolini Michele (Soc. Chievo Verona) al 14° del secondo tempo;

acquisite ed esaminate le relative immagini televisive (Sky) di piena garanzia tecnica e documentale;

rilevato che, nelle circostanze indicate, il calciatore clivense, uscendo dal terreno di giuoco in conseguenza dell’espulsione inflittagli dall’Arbitro pochi attimi prima, proferiva apparentemente un’espressione gergale, in uso nel Triveneto ed in Lombardia, con becero riferimento a “Diaz†e non a Dio (il diverso movimento delle labbra nelle pronuncia della vocale aperta “A†rispetto alla vocale “O†legittima quanto meno un’incertezza interpretativa);

ritenuto pertanto che la lettura labiale, nell’episodio segnalato, non offra una prova certa, nell’esclusione di ogni ragionevole dubbio, circa la pronuncia di un’espressione blasfema rilevante ex art. 19 n. 3bis CGS;

delibera

di non adottare alcun provvedimento sanzionatorio nei confronti del calciatore Marcolini Michele (Soc. Chievo Verona) in merito alla segnalazione del Procuratore federale.

Dunque, vista e rivista la moviola, sul terreno di giuoco non sarebbe stata pronunciata la ferale bestemmia, ma solo un equivocabile “porco Diaz”, naturalmente riferito alla guerra del ’15-’18: dunque nessuna squalifica.

A leggerlo, sembra un testo ottocentesco; e se concordo che le persone esposte alle telecamere dovrebbero dare esempi di buona educazione e di rispetto, mi chiedo tuttavia quanto sia ipocrita questa improvvisa pruderie in un Paese in cui il Presidente del Consiglio candida una velina travestita da infermiera dentistica (mi ricorda la trama di un porno) e in cui a qualsiasi ora in televisione si vedono tette, culi e risse di vario genere.

Il dubbio, naturalmente, è che sotto elezioni tutto faccia brodo per riportare all’ovile berlusconiano il “voto cattolico”, ossessione della politica italiana di ambo le parti (non a caso quelli del PD fino a un mese fa rispondevano alla Minetti con la Binetti, peraltro rafforzando nell’elettorato più becero la loro immagine incancellabile di sfigati). Aspettiamoci, dunque, un’ondata di mutandoni.

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martedì 2 Marzo 2010, 15:11

Ho incontrato la Digos

Stamattina ero in giro e ho sentito la notizia dell’arrivo di una nuova trivella della TAV in strada della Pronda, al confine tra Torino e Grugliasco; e così, ho fatto una deviazione e verso l’una e mezza sono arrivato lì per vedere cosa succedeva.

Parcheggio, arrivo sul posto; c’è un gazebo No Tav in via di montaggio con una manciata di persone, una decina al massimo. E poi, come al solito, un oceano di forze dell’ordine; sulla strada cinque o sei furgoni, più molti altri mezzi nel prato dove sta venendo montata la trivella. Mi metto sul marciapiede e comincio a fare qualche fotografia.

Dopo nemmeno due minuti un poliziotto scende dal furgone, attraversa la strada e viene da me; mi ferma, mi chiede i documenti, mi chiede di seguirlo (cosa che io faccio subito, da bravo cittadino). Vuole vedere tutte le foto che ho fatto, si lamenta che si vedono le targhe dei mezzi della polizia; io rispondo che non voglio fare niente di male, che essendo su una pubblica via mi risulta di poter fotografare, che non sapevo che non si potessero inquadrare i mezzi della polizia. Lui insiste che il problema sono le targhe; evidentemente anche i poliziotti tengono alla loro privacy, non sia mai che qualcuno possa poi sorprenderli in pose sconvenienti.

A questo punto il poliziotto chiama un signore della Digos, capelli ricci e occhialoni da sole; sembra quasi Poncharello – il digo che segue i tifosi del Toro – però non mi sembrava il caso di chiedere “scusa, ma tu sei Poncharello?”, comunque se non era lui vuol dire che l’ufficio del personale della Digos li cerca tutti uguali. Cominciano a farmi domande su chi sono e cosa voglio fare, mi chiedono se sono un giornalista – evidentemente se non hai il tesserino magico e la statura deontologica di un Massimo Numa non puoi documentare quel che accade. Io spiego tutto senza problemi, gli dico che sono un blogger (sguardi perplessi) e che faccio politica nel movimento di Beppe Grillo, gli faccio vedere le foto, ripeto che voglio solo documentare quel che accade e che essendo per una pubblica via mi risulta che si possa fare foto. Mi chiedono come ho fatto a sapere della trivella, rispondo “alla radio”, mi chiedono “che radio”, rispondo “Radio Flash”, e loro “ecco! Radio Flash!”.

Il poliziotto, nervosissimo, comincia un pippone di tre minuti, guardandomi sempre più storto; mi dice che sono un pecorone, che sono il decimo che viene a far foto e che solo perché lo dice una radio non devo andarle dietro… (probabilmente confonde Radio Flash con Radio Blackout). Infine, dopo essersi segnati i miei dati, mi dicono “ascolti, le consigliamo caldamente di cancellare quelle foto” e mi fanno andare: fine del primo incontro della mia vita con la polizia.

Dunque io, da bravo cittadino, ho cancellato le foto; ma prima di farlo ho pensato che, insomma, pubblicare una versione a bassa risoluzione era nel mio diritto, naturalmente dopo avere oscurato le targhe e i volti dei poliziotti con delle immagini e dei volti a caso.

stradapronda_700.jpg

Per carità, capisco anche il nervosismo dei poliziotti, il nervosismo di chi viene spedito a fare una repressione per difendere gli interessi privati di terzi, magari rendendosene pure conto; tuttavia io ero lì per documentare, non per prendere posizione e nemmeno per creare problemi a nessuno, anche se sono notoriamente contrario alla TAV. Vedere le strade di Torino invase di camionette, vedere fermare e chiedere i documenti a chi si avvicina, non è certo un bello spettacolo o un buon clima.

[tags]tav, no tav, torino, strada della pronda, trivelle, sondaggi, polizia, repressione, digos, partiti, chiamparino, politica, movimento 5 stelle[/tags]

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