Un pianto italiano
La guerra in Iraq, siamo penso tutti d’accordo, è stata una manovra di imperialismo preordinato, fondata su evidenti bugie, e mirata a sostituire un regime nemico (dittatoriale, ma questo era in realtà un particolare irrilevante) con uno amico, rafforzando nel contempo il consenso interno di George W. Bush; una aggressione militare, forse persino un crimine internazionale. Quella in Afghanistan non è stata troppo diversa. Eppure, a me le parole della sorella del militare italiano morto ieri a Kabul hanno dato molto fastidio.
Per carità , sono sicuramente parole dettate in buona parte dal dolore per la perdita di una persona cara, e quindi forse dovrebbero essere i media a ridimensionarle, anzichè spararle in prima pagina; ma dire che i nostri soldati vengono “lasciati morire come carne da macello”, e quindi invocarne il ritiro, è assolutamente bieco.
Possiamo discutere sulle ragioni per cui l’Italia partecipa a determinate operazioni militari, e persino sull’opportunità di ritirarsi. Ma la vieta retorica dei fiori nei cannoni, del “c’era un ragazzo che come me”, per favore lasciamocela alle spalle.
Dal punto di vista dei singoli, i nostri soldati che vanno in queste missioni sono volontari, hanno scelto liberamente di andare, e ricevono uno stipendio proporzionale al rischio, che conoscono benissimo molto prima di partire. La possibilità di morire facendo il proprio lavoro c’è, ma quello del militare all’estero non è certo l’unico lavoro che ha un rischio significativo di morte: conosco un ragazzo sardo che da anni e anni fa il carabiniere a Cinisello Balsamo, per uno stipendio che è un quarto di quello di un soldato in Afghanistan, e non credo che la mortalità del suo lavoro sia tanto inferiore.
Per la questione di principio, forse tra qualche decennio riusciremo ad avere un mondo privo di guerre; ma anche allora, non credo possibile avere un mondo senza forze armate, perchè la convivenza civile, tra persone come tra stati, si basa anche sull’accettazione – nevrotica o meno ;) – di regole comuni, e sul loro rispetto. Possiamo discutere all’infinito di quale sia il modo giusto e democratico per definire le regole di convivenza del mondo, ma non del fatto che si possa vivere senza avere dei mezzi, in casi estremi anche coercitivi, per farle rispettare; per non parlare dell’esigenza di forze armate di interposizione e pacificazione, che, con tutta l’ironia che ci si può fare sopra e con tutti i fallimenti passati (vedi Bosnia o Somalia), in altre situazioni hanno salvato dall’abisso dell’anarchia violenta intere nazioni.
Un Paese che non capisce questo, un Paese che non ha la capacità di inviare soldati a combattere, se necessario a morire, per difendere la pace e la gente comune là dove è richiesto, è un Paese bambino, che non è in grado di assumersi le proprie responsabilità da membro adulto e rispettato del consesso internazionale.
Allora, torniamo pure indietro dall’Afghanistan anche domani mattina, se pensiamo che la nostra presenza faccia male anzichè bene a quella nazione; ma non facciamolo solo perchè ai primi morti ci mettiamo a piagnucolare.