Slow food, fast money
Ieri sono andato a Bra, per Cheese: la fiera del formaggio organizzata da Slow Food. Bra è poco più che un paesello di campagna, sull’orlo del vallone del Tanaro; ieri era completamente invasa di gente, con il traffico ordinatamente bloccato a chilometri dal centro, navette e tutto il resto.
La fiera consiste di centinaia di bancarelle che vendono formaggi, provenienti da tutto il mondo, raggruppate in una piazza; in più, c’è una zona per assaggi di cibo tipico da varie regioni e stand di birra artigianale; e poi altre degustazioni e stand per tutta la città . Ieri era il giorno di punta, e la fiera era piena zeppa di gente: un successo insomma (finisce stasera).
Siamo tornati indietro con pile di ottimi formaggi mai visti e che non si trovano facilmente in giro; l’idea di mangiarli tutti subito è abortita quando ci siamo resi conto che ciò avrebbe distrutto il nostro fegato, ma ne abbiamo assaggiati vari e gli altri li faremo andare prossimamente in una apposita cena, cercando di farla sufficientemente presto da evitare che il mio frigo prenda vita.
Io però volevo fare qualche considerazione su questa fiera e in generale su tutto il movimento dello slow food, che ormai da vent’anni anima il Piemonte in particolare; ha iniziato con i presidi sul territorio, poi ha promosso le osterie d’Italia con apposita guida, poi sono nati il Salone del Gusto e Cheese, Terra Madre – il convegno dei campesinos mondiali – e ultimamente Eataly, iniziativa commerciale che non è proprietà di Petrini – il fondatore del tutto – ma di un suo buon amico, e si richiama esplicitamente all’idea.
Sono sicuramente iniziative encomiabili, che permettono di conservare produzioni di nicchia e di presentarle al grande pubblico, portando sulle nostre tavole prodotti di qualità , e insomma facendoci mangiare bene. Tuttavia, già da un po’ ho parecchie perplessità su tutto questo movimento, sia etiche che filosofiche, che derivano dall’osservazione di come l’idea, focalizzata inizialmente sul difendere una parte crescentemente povera della società come quella delle nostre campagne, si sia poi evoluta in una macchina da soldi per Petrini e compagni.
Delle Osterie d’Italia si sa: certo non costano come i locali della guida Michelin, ma l’idea iniziale di segnalare “vecchie osterie da trentamila lire a pasto” è stata man mano sfregiata dall’aggiunta di “osterie di nuova fondazione” – aka ristoranti appena aperti, apposta per finire sulla guida – e dall’abolizione di fatto del limite di prezzo, per cui ormai in quasi tutti i posti, indipendentemente dal prezzo dichiarato sulla guida, è difficile spendere meno di 30-35 euro, spesso 40-45.
Proseguendo, ieri a Cheese i prezzi erano più o meno il doppio di quelli di mercato: con poche eccezioni, gli stand vendevano a 25 euro al chilo i formaggi freschi, a 30, 35, 40 quelli stagionati. Anche la parte di cibo veloce, gestita direttamente da Slow Food, era vergognosa: con tre euro ti davano due panini costituiti ciascuno da uno gnocco di pane grande come mezzo dito, una spalmata di burro e una (1) acciuga. Con cinque euro ti davano un wurstel. Ottimo, eh, eccezionale; ma pur sempre un wurstel.
Finiamo con Eataly: anche lì, il cibo è spesso eccellente; i prezzi sono da gioielleria. Con l’aggravante che, oltre al cibo eccellente, si trovano anche prodotti da supermercato prezzati al doppio – come le patate Selenella che compravo regolarmente all’Ipercoop – e persino esposizione di roba che non c’entra niente, che viene gabellata per eticamente buona (come i televisori piatti: “Eataly ha scelto Sharp perchè sposa la filosofia del mangiare lento”??), ma che è lì solo perchè, pur di esserci, ha coperto Eataly di soldi; come peraltro molti degli stessi produttori agricoli che in teoria dovrebbero beneficiare del movimento. Insomma, Eataly è un contro-discount: se al discount compri (oltre a prodotti inferiori) le stesse cose ma le paghi la metà perchè non c’è il marketing, da Eataly compri (oltre a prodotti superiori) le stesse cose ma le paghi il doppio perchè c’è un marketing super raffinato.
Le perplessità etiche derivano da questo: alla fine, qualcuno si sta facendo i miliardi sotto la bandiera di Slow Food? Non c’è nulla di male nel far soldi nel campo alimentare, se non che tutti i sondaggi indicano che la gente non può più permettersi la carne e taglia gli acquisti di cibo, perchè – si dice – gli intermediari alimentari ci marciano, a danno sia dei contadini che dei consumatori. Allora, questi costi stratosferici sono poi così giustificati?
Perché io ho invece l’impressione che prendano gli stessi peperoni di Carmagnola che vent’anni fa ti tiravano dietro al mercato, li rinominino “peperone quadrato giallo del Presidio Slow Food” e te li vendano a quattro volte tanto; e non credo che questo sia nè etico nè eco-compatibile nè “un altro mondo possibile”, nè, perdipiù, meriti il flusso di soldi pubblici e collettivi (ieri c’erano enormi stand della Regione Piemonte e del Sanpaolo) che i politici destinano a queste operazioni.
Comunque, supponiamo pure che le acciughe di Slow Food, per essere così buone (come oggettivamente sono), abbiano costi di produzione tali da dover raddoppiare o quadruplicare il prezzo rispetto a quelle da supermercato. Il risultato è una produzione che è alla portata di una fascia limitata della società , insomma dei ricchi o perlomeno dei single in carriera con tanti soldi da spendere, come me. Certo non della famiglia con i figli da far crescere, e difatti ieri si vedeva tanta gente che si avvicinava agli stand, assaggiava, chiedeva il prezzo e scappava.
Filosoficamente, Slow Food è diventata una operazione aristocratica, che secondo gli schemi classici si definirebbe “di destra”; concentrata sul produrre cibo di gran pregio per chi può permetterselo, cioè una parte molto ridotta della società , quella dominante. L’operaio di Mirafiori o il nuovo schiavo dei call center certo non va a mangiare regolarmente nelle Osterie d’Italia e non compra i formaggi da trenta euro al chilo, nè i cioccolatini di Gobino da quindici euro a scatolina sugli scaffali di Eataly.
Confrontate questo modello con la bevanda più democratica del mondo, la Coca Cola: sarà americana e insalubre e tutto il resto, ma costa poco ed è uguale per tutti; anche se sei ricco, non puoi avere una Coca Cola migliore di quella del barbone sdraiato sul marciapiede. Sarà che ciò si può fare solo abbassando il livello, insomma producendo schifezze; eppure, dal punto di vista sociale, se fatto con cibo di qualità , sarebbe uno scenario molto più meritorio.
Io credo insomma che tutto questo movimento andrebbe sostenuto, anche dal pubblico, se lo scopo fosse quello di migliorare la qualità del cibo che le persone normali mangiano ogni giorno; se invece, come è ora, lo scopo è quello di produrre cibo molto ricercato per i ricchi, credo che dovrebbero farlo pagare interamente ai ricchi, senza chiedere appoggi pubblici, senza presentarcelo come il futuro progressista e alternativo, e senza utilizzare presunti principi etici come slogan pubblicitari.