La bolla del libro
Lo scandalo del premio Grinzane è esemplificativo di molte delle peggiori caratteristiche di questo Paese; se ne potrebbe parlare a lungo e già tanti l’hanno fatto.
Abbiamo una persona, Giuliano Soria, che mette in piedi un premio letterario, e sicuramente con competenza, visto il prestigio che il premio si conquista negli anni. D’altra parte, questo prestigio cresce ed è alimentato da un baraccone mediatico e finanziario, basato sulle amicizie e sui fondi pubblici procurati dalle amicizie stesse, nonché dal fratello Angelo Soria, alto dirigente della Regione, attualmente capo della comunicazione della Bresso e quindi responsabile di molti fondi.
Il baraccone conveniva a tutti: gonfiandosi progressivamente, permetteva a quanto pare laute trasferte gaudenti e altre prebende per gli amici, compresi amministratori pubblici di ogni colore; nonché permetteva a Giuliano Soria di arricchirsi, comprandosi appartamenti di pregio e terreni per miliardi. Tutto questo apparentemente condito, ed è aspetto altrettanto disgustoso, da quello che lui stesso definisce “un brutto carattere”, cioè vessazioni ai dipendenti e ai collaboratori, insulti, minacce a sfondo sessuale, comportamenti da star e da padrone assoluto.
Ci sono alcune cose che colpiscono, in questo scandalo; e non sono certo quelle che evidenzia La Stampa.
La prima è che esso non è venuto fuori per qualche tardiva ma giusta indignazione di qualcuno dei tanti esponenti della Torino bene, politica e culturale, che sapevano perfettamente come andavano le cose, ma solo per la coraggiosa denuncia dell’ex maggiordomo extracomunitario vessato in ogni modo. Lo stesso Angelo Soria è ancora al suo posto; si è preso un mese di ferie, e la Bresso non pare avere la minima intenzione di cacciarlo.
La seconda è quindi che si è scelto di concentrare tutto sul comodo capro espiatorio, cioè sullo stesso Giuliano Soria. Fa comodo a tutti scaricare uno solo, e il personaggio peraltro si presta; certo fanno un po’ ridere le sue sceneggiate napoletane, dato che la sua fine è ben meritata, ma a quei banchetti, a quelle feste, a quei giri di consulenze partecipavano tutti; non uno che si assuma la responsabilità di aver permesso che tutto questo durasse 28 anni, nemmeno politicamente. Anzi, è partito il tentativo di far finta di niente, nominando Odifreddi, un altro intellettuale organico al PD cittadino: insomma cambiando la faccia perché cambiasse il meno possibile. Alla fine lo scandalo è stato troppo grosso, e nessuno ha più voluto averci a che fare; lo stesso Odifreddi è stato prontissimo, appena fiutato il vento, a far marcia indietro e rinunciare di corsa. E Torino è ancora piena di aziende paramunicipalizzate e parapubbliche di ogni tipo, talvolta costruite solo per dare stipendi generosi agli amici, di cui nessun giornale parla mai.
La terza però è la suggestione di questo baraccone che si gonfia all’infinito, sempre più ricco e sempre più protervo, fino ad esplodere di botto. E’ una bolla: è come una di quelle banche che tirano avanti finché riescono a coprire il fatto di essere piene soltanto d’aria e di coperture importanti, ma alla fine non ce la fanno più e, nonostante i disperati tentativi di salvarle, vanno a gambe all’aria. Penso che nei prossimi mesi scopriremo storie simili anche per certe banche vere (e già ci sono state in passato, vedi Banca 121).
Insomma, questa storia è davvero esemplare su come venga gestita la cosa pubblica oggi in Italia e a Torino: come la proprietà privata di un gruppo di amici, messa lì a loro disposizione per divertirsi come più gli aggrada.
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