Andava a Rogoredo
Supponete di trovarvi in mano un abbonamento giornaliero ai mezzi di Milano, con un appuntamento che è finito prima del previsto, una giornata tutto sommato scarica d’impegni, un bellissimo sole e un cielo blu da anticipo d’estate che impone di non chiudersi al buio. Che fare?
Se di Torino conosco ormai quasi ogni anfratto, di Milano ci sono ancora ampie zone totalmente ignote; e a questo si somma il fatto che Milano è urbanisticamente più interessante di Torino, essendo cresciuta, per usare un francesismo, alla cazzo di cane. Io e una bici, qui, faremmo il dottor Livingstone per anni; ma non divaghiamo. Dunque, ho imbracciato la mia libertà da tre euro e sono uscito dalla metro a Rogoredo.
Prima ho fatto un giro per la stazione, che già di suo è urbanisticamente interessante; la classica stazione strategicamente concepita all’incrocio tra la ferrovia e una grande via di comunicazione (la via Emilia) e finita in un budello quando (e qui avvenne addirittura negli anni ’20) il fu passaggio a livello venne trasformato per ovvie esigenze in un cavalcavia con lunghe rampe. Se a Torino il fenomeno provocò la trasformazione dell’attuale via Giachino in un angolo depresso, a Milano l’operazione tagliò fuori dal mondo sia la stazione che il quartiere; e davanti alla stazione giace un’antica casa cantoniera ormai fuori posto.
Ma il vero obiettivo era l’altro lato: la fu campagna. Già solo capire come uscire dalla stazione verso Rogoredo non è facile; soltanto uno dei due sottopassi lo permette. Lo scenario da quel lato, però, è fantastico; un mix di vecchio troppo abbandonato e nuovo che era meglio abbandonare.
Da un lato c’è una cascina bellissima, di quelle che cent’anni fa davano lavoro e senso a questi borghi periferici, ora completamente abbandonata, fatiscente e murata, tranne che per qualche pertugio da cui emergono tendine rosa e qualche zingaro; e la via dietro – una di quelle vie prive di significato che residuano dal massacro costruttorio del Novecento – si chiama suggestivamente via Orwell. Dall’altro lato c’è un mostro, un enorme e modernissimo cubo grigio pieno di parabole sul tetto, atterrato sulla campagna (già acciaieria, a dire il vero) con la grazia di un elefante americano; è la nuova sede di Sky, e la via dietro si chiama appropriatamente via Monte Penice, dal nome dell’altura su cui stazionano le antenne televisive che sin dai primordi gloriosamente servono mezzo Nord Italia.
Tra le due c’è la via di Rogoredo, e se appena le case nascondono il mostro grigio non sembra nemmeno male, una fila di palazzine e negozi da un lato (anche una bella villona liberty) e un parchetto dall’altro, con tanto di monumento ai caduti stranamente sacrificato in un angolo (ma perché proprio lì?).
Io però ero lì per vedere il resto: il famoso quartiere Santa Giulia, il vanto del Duemila milanese. Un progetto immobiliare senza precedenti, gigantesco, costituito da decine e decine di palazzi eleganti di dieci piani l’uno, a due passi dalla stazione e dalle autostrade.
Intanto, è tutto un cantiere; e io già un paio di volte nella mia vita mi sono trasferito in mezzo a quartieri-cantiere, e ci sono abituato, ma lo stesso non fa un bell’effetto. Camminando per via Monte Penice si scorge solo un unico resto dell’acciaieria che prima occupava l’area, un magnifico edificio rotondo abbandonato tra le erbacce.
E’ quando si arriva in fondo che si vede cos’è questo quartiere: ci si trova di fronte a un’infilata a perdita d’occhio di case color panna e grigio, di quell’architettura a sbalzo – pieni e vuoti, sporgenze e rientranze – che va tanto di moda in questi anni. Uno le vede e pensa che nessuno possa aver costruito un’orrendità del genere; sembrano case progettate da Mangoni per scherzo, per prendere per il culo l’architettura moderna, e invece no, le ha progettate Norman Foster (più probabilmente, Foster dall’alto dei suoi 75 anni ha tirato tre righe e messo la firma, e poi hanno passato il tutto a un geometra di Lissone).
Arrivo all’angolo della via e scopro che si chiama via del Futurismo: ecco, anche questo è un nome perfettamente azzeccato. E’ proprio il futuro come se lo aspettavano negli anni ’30, come lo dipingeva Fritz Lang in Metropolis; un’idea di modernità vecchia di 80 anni. Perché nel resto del mondo parlano di case ecologiche, di integrazione con l’ambiente, e noi no: la modernità sono dei cubi di cemento bianchi e grigi di 10 piani.
Giro per il quartiere non capacitandomi di come qualcuno abbia potuto concepire una roba del genere; immensa, orrenda e desolatamente vuota. E’ talmente brutta che dopo un po’ stordisce, i sensi si intontiscono e si genera una specie di sindrome di Stoccolma architettonica per cui ti costringi a fartela piacere… Arrivo in via Cassinari, che parrebbe voler essere una passeggiata pedonale circondata da negozi – perlomeno, ricorda i disegni delle “new cities” con la gente che passeggia sopra, mamma e bambino mano nella mano, e le auto nascoste sotto, che si facevano nelle utopie degli anni ’60. Qui ci sono gli unici lavori in corso – pubblici, di operai che sistemano l’arredo del centro della via. Cantieri aperti e semiabbandonati ce n’è parecchi, privati che lavorano apparentemente nessuno.
La via, in sé, è una desolazione: è bianca e baciata dal sole, ma non c’è un negozio aperto. Anzi, non c’è un negozio, se si eccettua un piccolo bar a un angolo; la via è una infinita serie di spazi commerciali completamente vuoti, in alcuni casi già punteggiati di cartelli “vendesi” e “affittasi”, in altri coperti da cartelli pietosi quanto poco credibili, come “prossima apertura gelateria artigianale” – sbirci dentro e non hanno manco intonacato i locali, ci sono i mattoni nudi. I campanelli non mentono, così come le serrande ancora nuove di pacca e mai tirate su, e parlano di palazzi che viaggiano dal mezzo vuoto al completamente vuoto (spesso c’è un solo campanello con sopra un cognome in un intero palazzo di dieci piani, chissà come dev’essere vivere così: alienante o divertente?). Su un palazzo parlano di spazi in vendita “a partire da 3200 euro al metro quadro”, giusto due lirette, di questi tempi: chissà come mai non c’è l’assalto.
Il luogo non è completamente deserto, anzi le vie laterali sono piene di auto parcheggiate (o non hanno ancora consegnato i box, o la gente non aveva più i soldi per comprarli). Per strada incrocio comunque due o tre persone che paiono del posto; il bastardo che è in me vorrebbe schernirle, “signora, s’è fatta fregare dalla pubblicità dei palazzinari, mi condolgo”, ma mi avrebbe probabilmente risposto con un cazzotto nei denti, e comunque non avrei avuto veramente cuore di farlo; al massimo avrei porto una spalla su cui piangere.
In tutta questa meraviglia mi colpisce una cosa: non ho visto un giardinetto, una piazza, un centro pubblico, un campo di pallone, qualcosa che possa dare un’idea di umanità convivente e non solo di palazzi pretenziosi. Per carità , in Italia in genere i servizi arrivano dieci anni dopo le abitazioni, ma Santa Giulia sembra uno di quei posti dove, per giusto contrappasso, bisognerebbe mandare a vivere gli architetti che li hanno progettati, in modo che possano espiare. Forse migliorerà col tempo, ma per ora è un quartiere fantasma di quelli ammazzati dalla crisi immobiliare, e che rischiano di restare così per lustri (non ridete, anche a Torino ce n’è, per quanto non su questa scala). Nel frattempo, mi sono allontanato piano piano, cercando di non far rumore, andando all’indietro con gli occhi bene aperti come in un film dell’orrore.
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