Quel posto lÃ
Rivoluzione in Kirghizistan: il popolo è stufo di vivere in uno Stato di cui non si sa nemmeno bene come si scriva il nome.
Si fa per scherzare, ma è indubbio che nell’immaginario degli italiani il mondo sia rimasto fermo agli anni ’80; quelli in cui il pianeta era dominato dagli Stati Uniti, a cui a malapena si contrapponeva un blocco sovietico in decadenza, e nel mezzo stava un’Europa che, almeno culturalmente, era ancora il centro del mondo. Il resto, leones: territori sottosviluppati pieni di gente che, se non moriva di fame, comunque viveva con gli scarti dell’Occidente.
La realtà è andata avanti e ci ha lasciati indietro: ben pochi italiani saprebbero indicare dove sta il Kirghizistan su una carta geografica, e quasi nessuno descrivere i giochi geopolitici in cui si trova in mezzo. Eppure basta mettere il naso fuori dai nostri confini per scoprire che il mondo prende direzioni che noi continuiamo ad ignorare, e si consegna a genti di cui non sappiamo, appunto, nemmeno il nome. Per esempio a Londra, un paio di mesi fa, mentre lasciavamo il nostro albergo centrale e relativamente elegante che potevamo permetterci solo trattandosi di viaggio di lavoro, abbiamo assistito all’arrivo di una comitiva di turisti in tiro, con tanto di guida turistica al seguito, che hanno scaricato tonnellate di valigie prima di requisire tutte le migliori camere e poi chiedere dov’è che si andava a fare shopping; e non erano americani, non erano tedeschi, non erano nemmeno russi o giapponesi; erano kazaki.
Ogni tanto mi diverto ad accendere Sky e a mettere sul canale 530, ossia CCTV-9: il canale internazionale in inglese della televisione di stato cinese. Il loro telegiornale parla del nostro stesso mondo, ma con priorità diverse; non ci sono Berlusconi e Bersani (c’era però la notizia del terzino dell’Inter, Santon, operato al ginocchio) e anche Obama e Sarkozy compaiono solo ogni tanto (le loro mogli mai). Invece, oggi i cinesi mostravano nell’ordine la rivoluzione in Kirghizistan, le elezioni in Sri Lanka e le proteste di piazza in Thailandia (poi c’erano dieci minuti buoni di sfottimento sui problemi di qualità della Toyota, perché si sa, parlar male dei cugini giapponesi è un dovere). I cinesi parlano di un continente come l’Asia che da solo vale metà del mondo, e che si sta progressivamente trasformando nel loro giardinetto di casa, un po’ come il Sud America lo è stato degli Stati Uniti per un secolo (lo è sempre di meno).
Noi insistiamo con le nostre certezze, quelle dell’Italia grande potenza mondiale e meta di immigrazione e investimenti dal mondo. Ormai questo è il passato; gli stranieri non vengono qui a investire, ma a colonizzarci; e la nostra immigrazione si riduce principalmente a un’area vicina culturalmente (Romania) o almeno geograficamente (Africa settentrionale e occidentale), spesso come primo passo verso altri paesi europei più allettanti; al massimo, si viene qui perché siamo i meno capaci a gestire i flussi e a far rispettare le regole. In compenso, alla nostra emigrazione da paese sviluppato degli anni ’50 e ’60 – quando esportavamo soprattutto lavoratori poco qualificati – si è sostituito un pattern di emigrazione di tipo africano, in cui ad emigrare sono i più brillanti e i più attivi.
Eppure, noi vogliamo ancora fare gli americani; e quando ci parlano di Kirghizistan e Kazakistan noi pensiamo alle capanne di fango del film di Borat. Come appunto fanno gli americani, che però, tutto sommato, possono ancora permetterselo. Per noi, invece, è giunta davvero l’ora di mettersi a studiare le cartine.
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