La società frustrata
Stasera, leggendo in giro, sono finito tramite il blog di .mau. in quello di una persona che non conosco, anche se mi sono subito ricordato di aver letto il blog tempo fa. Si tratta del racconto fatto da un tecnico di alto livello che lavora in un centro ricerca di una grande multinazionale (Siemens) che, d’improvviso, viene chiuso per essere trasferito all’estero, dove il lavoro qualificato costa meno. Di lì in poi, per oltre due anni, il blog racconta della progressiva spoliazione delle competenze locali, della fuga o cacciata di parte del personale e delle varie riorganizzazioni che chi resta deve subire; il tutto con un tono estremamente polemico e vittimistico, sin dalla pagina introduttiva, come se ciò che succede al protagonista fosse uno scandalo collettivo e non una normale, per quanto spiacevole, vicenda lavorativa privata.
Adesso che mi ricordo, avevo già contestato l’approccio all’epoca, sulla base del fatto che non è sovvenzionando o difendendo artificialmente delle situazioni lavorative non più competitive che possiamo garantirci un futuro, anche in produzioni molto qualificate. Ma il punto non è questo.
La cosa che mi ha colpito stasera, leggendo qua e là con la curiosità di scoprire come si era evoluta nel frattempo la vicenda, è stato un post di fine luglio in cui si narra degli ennesimi brutti segnali, in vista della fusione tra la divisione cellulari di Siemens e Nokia, con le conseguenti paure per il posto di lavoro; il post finisce con la seguente frase:
“Morale, quest’anno faccio vacanze costose, visto che l’anno prossimo potrei non potermele permettere…”
Ecco, detto che i pensieri espressi in rete possono essere fraintendibili, che quello che segue è un volo pindarico pieno di inferenze non provate, e che comunque ognuno ha legittimamente i propri desideri e le proprie esigenze di vita, questa frase mi ha colpito non una ma due volte.
La prima è stato per aver citato le “vacanze costose” come ciò a cui si sarebbe dovuto rinunciare per colpa della crisi sul posto di lavoro, insomma come la rinuncia simbolo del passaggio a uno stato di inaccettabile depauperamento – o, al contrario, come il giusto premio che si ottiene avendo un lavoro “adeguato”. In altre parole, mi ha colpito come si sia incredibilmente alzato il livello di aspettativa su ciò che molte persone ritengono il minimo equo compenso da ricevere dalla società in cambio del proprio lavoro; non soltanto il sostentamento, una casa decente, la possibilità di crearsi una famiglia, ma anche i gadget tecnologici e appunto le vacanze costose (e, si noti bene, non necessariamente belle ma sicuramente costose).
La seconda è stata il ragionamento secondo cui, se l’anno prossimo penso o temo di guadagnare meno di quest’anno, quest’anno spendo di più invece che di meno. Se ci pensate, questo è veramente perverso: i nostri padri, i nostri nonni, sono partiti con poco (i nostri nonni si sono trovati un paese quasi senza economia e raso al suolo dalla guerra…), e, con un lavoro quantitativamente e qualitativamente incomparabilmente più duro del nostro, hanno fatto sacrifici tutta la vita per comprarsi una casa, una macchina, e mandare i figli all’università . Le generazioni vicine alla mia, i trentenni e i quarantenni di oggi, pur di fronte a un mondo con molte meno certezze (ma anche a una situazione economica di partenza molto migliore), e pur vedendo come una prospettiva catastrofica il dover rinunciare ad una estate alle Seychelles (o forse proprio per quello), non hanno nessuna intenzione di risparmiare o di sacrificare alcunchè per costruirsi un futuro; l’imperativo è soddisfare subito, qui e ora, le proprie voglie istantanee, senza guardare in faccia niente e nessuno, e poi si vedrà .
Ho preso l’esempio di una persona che, ripeto, non conosco, ma che dal blog si evince colta, preparata, non certo succube degli spot televisivi o del modello di vita velina-calciatore-Briatore; ne deduco (ma basta guardarsi attorno) che per l’italiano medio è anche peggio. Del resto, giusto per citare un sintomo tra molti, i finanziamenti al consumo di ogni genere, da quelli delle banche ai terrificanti Prestitò telepromozionati per giungere alle carte di credito con dilazione di pagamento incorporata, stanno vivendo un boom senza precedenti. Il paese tradizionalmente più risparmiatore d’Europa si è trasformato nel regno dell’indebitamento a rate.
Eppure, il ragionamento non si può fermare qui. Perchè la psicologia insegna che il consumo moderno è soprattutto una forma di gratificazione, e la gratificazione da shopping – come quella da cibo, da fumo, da alcool – diventa tanto più impellente quanto più vengono a mancare le forme di gratificazione più normali e tradizionali, prima tra tutti quella dei rapporti interpersonali in tutte le loro forme, associazione amicizia amore e sesso tra le altre, e poi quella della realizzazione pubblica, del riconoscimento tra pari, delle soddisfazioni professionali.
E allora, forse tutto questo debito e questo apparente edonismo individuale hanno una causa profonda, cioè la frustrazione tremenda che, in modo ancora sotterraneo ma ben percepibile, attraversa tutta la nostra società . Una frustrazione che è, purtroppo, strutturale; non solo per via dei meccanismi economici basati sulla creazione di desideri artificiali funzionali al consumo, o della parcellizzazione e dequalificazione dei posti di lavoro; ma anche per via del modo in cui, in una società basata troppo spesso sull’arroganza, sulla competizione spinta all’estremo, sulla libertà individuale senza limiti etici e sull’instabilità professionale e personale, i rapporti umani di qualsiasi genere si sono inceppati.