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mercoledì 13 Settembre 2006, 21:38

La società frustrata

Stasera, leggendo in giro, sono finito tramite il blog di .mau. in quello di una persona che non conosco, anche se mi sono subito ricordato di aver letto il blog tempo fa. Si tratta del racconto fatto da un tecnico di alto livello che lavora in un centro ricerca di una grande multinazionale (Siemens) che, d’improvviso, viene chiuso per essere trasferito all’estero, dove il lavoro qualificato costa meno. Di lì in poi, per oltre due anni, il blog racconta della progressiva spoliazione delle competenze locali, della fuga o cacciata di parte del personale e delle varie riorganizzazioni che chi resta deve subire; il tutto con un tono estremamente polemico e vittimistico, sin dalla pagina introduttiva, come se ciò che succede al protagonista fosse uno scandalo collettivo e non una normale, per quanto spiacevole, vicenda lavorativa privata.

Adesso che mi ricordo, avevo già contestato l’approccio all’epoca, sulla base del fatto che non è sovvenzionando o difendendo artificialmente delle situazioni lavorative non più competitive che possiamo garantirci un futuro, anche in produzioni molto qualificate. Ma il punto non è questo.

La cosa che mi ha colpito stasera, leggendo qua e là con la curiosità di scoprire come si era evoluta nel frattempo la vicenda, è stato un post di fine luglio in cui si narra degli ennesimi brutti segnali, in vista della fusione tra la divisione cellulari di Siemens e Nokia, con le conseguenti paure per il posto di lavoro; il post finisce con la seguente frase:

“Morale, quest’anno faccio vacanze costose, visto che l’anno prossimo potrei non potermele permettere…”

Ecco, detto che i pensieri espressi in rete possono essere fraintendibili, che quello che segue è un volo pindarico pieno di inferenze non provate, e che comunque ognuno ha legittimamente i propri desideri e le proprie esigenze di vita, questa frase mi ha colpito non una ma due volte.

La prima è stato per aver citato le “vacanze costose” come ciò a cui si sarebbe dovuto rinunciare per colpa della crisi sul posto di lavoro, insomma come la rinuncia simbolo del passaggio a uno stato di inaccettabile depauperamento – o, al contrario, come il giusto premio che si ottiene avendo un lavoro “adeguato”. In altre parole, mi ha colpito come si sia incredibilmente alzato il livello di aspettativa su ciò che molte persone ritengono il minimo equo compenso da ricevere dalla società in cambio del proprio lavoro; non soltanto il sostentamento, una casa decente, la possibilità di crearsi una famiglia, ma anche i gadget tecnologici e appunto le vacanze costose (e, si noti bene, non necessariamente belle ma sicuramente costose).

La seconda è stata il ragionamento secondo cui, se l’anno prossimo penso o temo di guadagnare meno di quest’anno, quest’anno spendo di più invece che di meno. Se ci pensate, questo è veramente perverso: i nostri padri, i nostri nonni, sono partiti con poco (i nostri nonni si sono trovati un paese quasi senza economia e raso al suolo dalla guerra…), e, con un lavoro quantitativamente e qualitativamente incomparabilmente più duro del nostro, hanno fatto sacrifici tutta la vita per comprarsi una casa, una macchina, e mandare i figli all’università. Le generazioni vicine alla mia, i trentenni e i quarantenni di oggi, pur di fronte a un mondo con molte meno certezze (ma anche a una situazione economica di partenza molto migliore), e pur vedendo come una prospettiva catastrofica il dover rinunciare ad una estate alle Seychelles (o forse proprio per quello), non hanno nessuna intenzione di risparmiare o di sacrificare alcunchè per costruirsi un futuro; l’imperativo è soddisfare subito, qui e ora, le proprie voglie istantanee, senza guardare in faccia niente e nessuno, e poi si vedrà.

Ho preso l’esempio di una persona che, ripeto, non conosco, ma che dal blog si evince colta, preparata, non certo succube degli spot televisivi o del modello di vita velina-calciatore-Briatore; ne deduco (ma basta guardarsi attorno) che per l’italiano medio è anche peggio. Del resto, giusto per citare un sintomo tra molti, i finanziamenti al consumo di ogni genere, da quelli delle banche ai terrificanti Prestitò telepromozionati per giungere alle carte di credito con dilazione di pagamento incorporata, stanno vivendo un boom senza precedenti. Il paese tradizionalmente più risparmiatore d’Europa si è trasformato nel regno dell’indebitamento a rate.

Eppure, il ragionamento non si può fermare qui. Perchè la psicologia insegna che il consumo moderno è soprattutto una forma di gratificazione, e la gratificazione da shopping – come quella da cibo, da fumo, da alcool – diventa tanto più impellente quanto più vengono a mancare le forme di gratificazione più normali e tradizionali, prima tra tutti quella dei rapporti interpersonali in tutte le loro forme, associazione amicizia amore e sesso tra le altre, e poi quella della realizzazione pubblica, del riconoscimento tra pari, delle soddisfazioni professionali.

E allora, forse tutto questo debito e questo apparente edonismo individuale hanno una causa profonda, cioè la frustrazione tremenda che, in modo ancora sotterraneo ma ben percepibile, attraversa tutta la nostra società. Una frustrazione che è, purtroppo, strutturale; non solo per via dei meccanismi economici basati sulla creazione di desideri artificiali funzionali al consumo, o della parcellizzazione e dequalificazione dei posti di lavoro; ma anche per via del modo in cui, in una società basata troppo spesso sull’arroganza, sulla competizione spinta all’estremo, sulla libertà individuale senza limiti etici e sull’instabilità professionale e personale, i rapporti umani di qualsiasi genere si sono inceppati.

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13 commenti a “La società frustrata”

  1. elenab:

    io sono d’accordo quasi su tutto ma mi preoccupa una cosa: a forza di leggere La Stampa hai cominciato a sprigionare una sorta di lamentosismo sabaudo elevato a potenza… ti lamenti di quelli che si lamentano!!!

  2. BlindWolf:

    L’episodio “delle vacanze” è inquietante perchè ribalta il concetto che dalla prudenza e dalla parsimonia siamo passati alla paura della perdita del benessere ed al “devo spendere per dimostra re il mio stato sociale”. In altri tempi una persona in tali condizioni avrebbe risparmiato quest’anno per permettersi una piccola vacanza l’anno successivo.
    E se non perdesse il posto di lavoro, l’anno prossimo risparmierà sulle vacanze o farà come se nulla fosse accaduto?

    Discordo un po’ riguardo all’incremento dell’uso del “credito al consumo”. L’Italia è una nazione in cui se ne fa poco uso, anche se sta crescendo rapidamente; personalmente non ci vedo nulla di male, ma occorre fare attenzione alle seguenti cose:
    1) i posti di lavoro sempre più instabili rischiano di lasciare il debitore in braghe di tela
    2) occorre stare attenti agli abusi: negli USA è normale avere un indebitamento maggiore del proprio stipendio!!!
    Inoltre, se e quando questo strumento prenderà piede come negli Stati Uniti, rischierà di diventare una scelta dentro-o-fuori: uno che ha sempre fatto leva sui propri risparmi, il giorno che per motivi eccezionali chiederà un prestito gli sarà negato perchè non ha “referenze” creditizie!

  3. .mau.:

    non è detto che tu non lo conosca (non è nemmeno detto che tu lo conosca, intendiamoci: però non è impossibile)

  4. elenab:

    specifico il mio “quasi”:

    “non è sovvenzionando o difendendo artificialmente delle situazioni lavorative non più competitive che possiamo garantirci un futuro”
    su questo NON sono d’accordo. certo, il principio generale è corretto: se ci sono dei problemi “di sistema”, non è aggrappandosi al proprio interesse individuale che si risolvono questi problemi. solo che il sistema è fatto guarda caso proprio di individui, e si evolve non solo per interventi di grande portata ma anche per effetto delle piccole forze individuali ed egoistiche. se poi questo “egoismo” di fatto non è altro che un difendere la propria serenità personale, francamente non ci trovo nulla di sbagliato, anzi. le forze “forti” che governano il “sistema” sono di fatto interessi economici e politici, che non si fanno troppi problemi di natura etica e tantomeno si preoccupano del rispetto dei diritti umani: le voci che si levano a punzecchiare, puntualizzare, lamentarsi, protestare, secondo me sono assolutamente indispensabili. e non credo affatto che si abbia diritto a lamentarsi solo quando si è ridotti alla fame, alla malattia o alla disperazione.

  5. Lo:

    Conosco quel blog da un bel pò- se vai a vedere i primi post (non so se ci sono ancora) è un ragazzo sardo approdato a Milano e passato per le telco.
    Premetto che è una modalità molto diffusa questa: “dovuto rinunciare per colpa della crisi sul posto di lavoro”= per colpa di un qualcos’ altro che sta fuori di me, col quale io non c’entro nulla se non come succube e possibilmente martire.
    Ma aggiungo che è una modalità ancor più tipica di chi è vissuto in isolamento, a guardarsi le spalle per generazioni e ha sviluppato una paranoia che “se lui può e io non posso è certo che lui sta rubando a me”.
    Cosa ne segue: che non mi metto in gioco io ma cerco, per quanto posso, di rovinare l’altro, di mettergli i bastoni fra le ruote, di denigrarlo almeno.
    Morale: “qualsiasi cosa pur di non coinvolgere la mia personale responsabilità in quello che sta succedendo nella mia vita o trovarmi risorse per evitare di ruzzolare giù insieme col tutto”.
    Dunque non è pensabile il risparmio, l’ottica diversa, perchè sono in credito perenne, qui pure transgenerazionale. Detto questo imho inquadri meglio es. anche la situazione Soru, tasse e l’invidia= avviene pure in chi le risorse le ha.

  6. Mir:

    Concordo pienamente con Elena.

  7. vb:

    Mah: che il sistema si possa influenzare anche dal piccolo è vero, ma non capisco l’osservazione nel caso specifico.

    Voglio dire, si può anche protestare, parlando di “crisi della ricerca italiana” invece che di “ho un datore di lavoro a cui non servo più”, e pretendere un intervento della collettività, con soldi o con pressioni, per mantenere in essere una situazione che da sola, in termini di business, non si regge in piedi. Però è matematico che questo non può diventare un sistema, nel senso che non si può avere una economia in cui tutti i posti di lavoro che le aziende giudicano improduttivi vengono mantenuti a seguito delle proteste degli interessati: non ci sarebbero fisicamente i soldi.

    Quindi quello che si persegue in questo caso non è un cambiamento del sistema, ma un privilegio personale: il fatto che il proprio posto di lavoro venga preservato a forza di proteste, pur sapendo che esso non porta benefici alla collettività in generale (se lo facesse, sarebbe una attività in attivo e non in perdita), e che non si può fare lo stesso per tutti quelli che si trovano o si troveranno nella stessa situazione.

  8. Nick:

    Senza nessuna voglia di scatenare polemiche, ma ho la nettissima impressione che di fronte a un problema a tutti noi italiani (per quanto non mi piaccia generalizzare) venga immediatamente in mente di chiederci (e di chiedere a gran voce): “di chi è la colpa?”.
    Secondo me sarebbe più saggio domandarsi PRIMA “qual’è la soluzione per questo problema? Come possiamo risolverlo?”. Poi, per carità, trovare “il colpevole” va anche bene, non tanto per “punirlo”, ma per evitare che torni a generare il problema.
    E’ soltanto che mi sembra ENORMEMENTE semplicistico pensare sempre e solo che la soluzione del problema possa essere rimuovere “il colpevole” che lo ha generato (ammesso che ci sia!).

    My two cents,
    Nick

  9. Mir:

    No no, no cosi’ proprio non va. Saro’ pessimista, saro’ lamentone, eppero’ io la fine degli anni 70 e i primi anni 80 me li ricordo lucidamente (avevo una decina d’anni). Ovviamente a quei tempi certe considerazioni non potevo farle, oggi e’ diverso.
    E quello che posso dire e’ che, al di la’ dell’ubriacatura del “tutto e’ sociale” c’era un’altro tipo di solidarieta’ tra gli individui. Allora piu’ di oggi si tirava la cinghia, e niente era scontato (soprattutto le vacanze “costose” al mare) , ma innanzitutto c’era la speranza di raggiungere qualcosa di concreto (una casa, un risparmio, una famiglia, quello che volete, ma erano obiettivi in cui si credeva profondamente! Oggi si ha la sensazione che piu’ nulla sia duraturo, a partire dal proprio lavoro, anche se si hanno le capacita’).
    E d’altra parte oggi sembra tutto scontato: ferie, bella auto, cellulare, SERVIZI. E non sono piu’ uno status symbol si badi bene. Un coglione qualunque puo’ fare ferie costose o permettersi un tenore di vita elevato, basta rivolgersi a una finanziaria prestasoldi. E’ frenesia! E’ NEVROSI!!
    Se alle generazioni piu’ giovani viene suggerito in tutti i modi attraverso i nostri prodigiosi media che a fare i furbi, alla fine, ci si guadagna, e quelli che invece hanno il mito del lavoro debbono scappare all’estero perche’ : “Ragazzi, qui CI PAGANO!”, allora significa che davvero c’e’ qualcosa che non va , non localizzabile unicamente nel contesto dello stato economico di questa nazione, o della congiuntura internazionale. No. Non ci sto che uno debba dare il culo alla propria azienda e poi a 45 anni se ti sbattono fuori “non ti lamentare, non hai voglia di fare un cazzo, adattati”. Non ci sto che per fondere due aziende al fine di resistere sul mercato si debbano far fuori il 15% dei dipendenti. E magari sara’ anche giusto per questo tipo di sistema Capitalista e per quello che e’ diventato, ma stona. Il lavoro dovrebbe essere innanzitutto un diritto alla vita DIGNITOSA, non a una sopravvivenza in cui per pagare l’acqua il gas e l’assicurazione dell’auto uno debba andare a farsi prendere a schiaffoni 6 giorni e mezzo su 7 in un call-center o in posti similari. Chi merita di piu’ e’ giusto che abbia di piu’ in termini economici e di considerazione, ma non si possono sfondare certi limiti di umana decenza in nome del profitto, questo anche se i cinesi lavorano 12 ore al giorno e costano un TERZO. Quando si saranno rammolliti nel benessere come noi li vorro’ vedere.. torneranno ad aprire le fabbriche in Europa che nel frattempo sara’ ridotta alla fame?

    Perche’ le nostre voglie, i nostri consumi nevrotici indotti da chi ci vuole vendere cazzate o i sogni delle cazzate, non le possiamo far scontare a chi va a fondo.
    Perche’ il vicino non dovremmo vederlo come il “colpevole” ma come colui che puo’ darci una mano ed essere una opportunita’. Ci hanno forse gia’ trasformati tutti in polli da batteria che si scanneranno per comprare 4 cazzate tecnologiche il sabato pomeriggio al Carrefour?
    Non si puo’ pensare di chiamarsi fuori da processi sociali di un certo genere; se non si cambiera’ direzione andremo tutti a fondo, e c’e’ davvero bisogno di una crescita generale di consapevolezza e di inventiva per restare “a galla”. Ma soprattutto ci vuole la solidarieta’ e il senso della sobrieta’. Bisogna imparare ad indignarsi di fronte alla consapevolezza che esistono persone ricche da far schifo e gente che muore assiderata in casa (si si, nelle nostre citta’!). Poi la soluzione non la conosco, e questo potra’ anche sembrare un discorso retorico ed inconcludente, ma il messaggio e’ : “Va bene ragazzi, le aziende non sono associazioni di carita’, navighiamo in un sistema economico che e’ quello che e’, pero’ in giro c’e’ chi se ne approfitta (e molto) senza pieta’ nel far umiliare persone che hanno unicamente il potere del proprio lavoro, e tutto questo ormai accade non piu’ in nome di un maggiore profitto, ma semplicemente per REGGERE LA CONCORRENZA! Non perdiamo la solidarieta’ che puo’ aiutarci a mantenere una visione globale su queste situazioni e quindi possibili soluzioni, non lasciamo che il nostro diventi un piccolo mondo personale dove l’obiettivo sia unicamente restare a galla o guadagnarci sopra senza cura minima di tutto il resto, poiche’ in tal caso a fondo ci andremo di sicuro tutti.”

  10. vb:

    Grazie per il discorso retorico e inconcludente :-D

    In realtà sono d’accordo con te su quasi tutto, e in particolare sul crollo della solidarietà tra le persone e dei valori etici in generale (di cui, gira e rigira, torno a parlare da varie angolazioni ogni tre post). Sono specificamente d’accordo sul fatto che non si possa accettare la dequalificazione del lavoro se è mirata unicamente all’incremento del profitto degli azionisti.

    Quello che trovo non condivisibile, però, è la reazione ad un problema molto più complesso, cioè la dequalificazione o perdita del lavoro che avviene a seguito della mancanza di competitività generale delle nostre aziende e dei nostri lavoratori. In astratto, è vero, è inaccettabile che le persone siano costrette a “prostituirsi” semplicemente per tenere a galla le nostre imprese, anche quelle che non fanno profitti da anni. Ma in pratica, qual è la soluzione? Bloccare le frontiere? Uscire dalla competizione globale? Uscire dall’Europa, così possiamo di nuovo svalutare la lira o stampare moneta per sussidiare l’economia? Nazionalizzare l’economia per eliminare il concetto di profitto e quindi redistribuire ogni margine ai lavoratori?

    Sono tutte soluzioni concepibili – ammesso che possano funzionare, cosa che è tutta da dimostrare – ma che richiederebbero probabilmente un conflitto politico senza precedenti, se non una guerra (civile e/o internazionale). Poi, siccome di soluzioni meno distruttive non ne vedo, ho anche il sospetto che quando l’impoverimento e l’esasperazione saranno cresciute ancora un po’ la guerra civile scoppierà davvero, anche solo in forma sotterranea, come la guerra permanente dei ghettizzati contro la polizia nelle periferie delle megalopoli americane o nelle banlieue francesi.

    Certo che, da questi pensieri, viene voglia di sbattersi per capire se non possano esistere invece soluzioni pacifiche, senza lasciare incancrenire il problema.

    Mi piacerebbe comunque sentire altri pareri, non credo di avere l’unico blog che solleva questo genere di discussioni… anche se vedo in giro tanta rassegnazione e tanta voglia di mettere la testa sotto la sabbia, e farsi nel frattempo le vacanze costose almeno quest’anno :-)

  11. Bruno:

    Le generalizzazioni sono spesso insidiose, ma nessuna è più molesta di quella che comprende i “bei vecchi tempi”, la generalizzazione alla “Si stava meglio quando si stava peggio” o “quando c’era lui”. Secondo questo post, un tecnico non vede l’ora di sputtanarsi i soldi in vacanze costose. Conosco molta gente che faceva lo stesso negli anni ’70 e ’80, mi garantiscono molti che persino negli anni ’20 esisteva una cospicua quantità di persone che non vedevano l’ora di sputtanarsi lo stipendio al bar, con le puttane, al gioco delle carte e in mille altri modi: la scelta non è mai mancata, anche prima delle carte di credito e dei prestiti run time. Il benessere, anche psicologico, è aumentato rispetto al passato. Sono aumentate anche le possibilità di relazione sociale, grazie alla diffusione degli anticoncezionali il sesso è diventato una gioia… Non si stava meglio quando si stava peggio, anzi, sarò forse un po’ tautologico, ma quando si stava peggio… Beh, si stava PEGGIO.

  12. Alberto:

    Ciao,
    riprendo l’affermazione “non è sovvenzionando o difendendo artificialmente delle situazioni lavorative non più competitive che possiamo garantirci un futuro†per proporre una mia riflessione usando una metafora sportiva (senza sconfinare nelle diatribe calcistiche).
    Se si pensa alla battaglia contro il doping nello sport, si può dire forse che sia una battaglia per difendere artificialmente una realtà (quella dello sport senza doping) che manifestamente non è competitiva rispetto ad un altra (ovvero lo sport con il doping)? Direi proprio di sì. Questo non mi porta però a dire che sarebbe bene abbandonare questa battaglia e permettere che gli sportivi facciano illimitato uso di sostanze che ne migliorino le prestazioni, perché ritengo che la pratica sportiva non debba andare a discapito dell’integrità fisica e che quindi non si possa barattare la propria salute per un primato del mondo o una medaglia olimpica. Allo stesso modo qualcuno (e io tra quelli) sostiene che non sia giusto barattare un sistema di vita per qualche punto in più di PIL e che quindi difendere artificialmente delle realtà meno competitive perché appesantite da costi fiscali e sindacali sia giusto, perché questi costi servono per avere garanzie superiori e quindi un livello di benessere superiore.
    Quanto si è verificato nel mondo negli ultimi decenni è che le nostre imprese hanno accettato di competere con nazioni nelle quali il doping era lecito e questo perché le nostre imprese così potevano correre più forte, adesso però ci accorgiamo che per poter continuare a vincere qualche medaglia alle Olimpiadi anche noi dobbiamo correre più forte e per farlo dobbiamo prendere il doping anche noi ovvero dobbiamo rinunciare anche noi alle garanzie che avevamo conquistato e la cosa giustamente ci ripugna. Difficile dire quale sia l’alternativa. Ritirarsi dalle Olimpiadi temo sia impossibile ormai. Probabilmente l’unica speranza risiede nel fatto che in un futuro il doping venga abolito o limitato anche altrove, ma succederà mai?
    E allora va bene, mandiamo giù anche noi le pastigliette colorate ma almeno ci lascino esternare la nostra ripugnanza…

    Saluti
    Alberto

  13. giorgetto:

    ..per la cronaca, funziona anche con gmail ed altri provider, in pratica se la mia mail e’ mionome@gmail.com, basta aggiungere un “+” tra il nome e la “@” ovvero, mionome+blogitalia@gmail.com, mionome+lavoro@gmail.com..
    provare per credere.

    Detto questo, sono curioso di vedere come va a finire sta storia.

 
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