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Archivio per il mese di Settembre 2006


domenica 24 Settembre 2006, 22:22

I [Heart] Huckabees

In questo weekend di isolamento montano, ho visto I [Heart] Huckabees (sottotitolo, Le strane coincidenze della vita) perchè me ne aveva parlato in lungo e in largo Simone tempo fa, che lo aveva trovato particolare e molto interessante.

Stando alla descrizione sulla guida ai programmi Sky, il film – con un cast degno di nota, che vede tra gli altri Dustin Hoffman, Isabelle Huppert, Jude Law, Mark Wahlberg e Naomi Watts – racconta di “due detective esistenziali, un mestiere curioso con cui aiutano un ambientalista in conflitto con uno yuppie”.

In realtà, già dopo i primi dieci minuti ho capito di cosa si trattasse: il film è la rappresentazione visiva piuttosto precisa del percorso di un tizio che va in analisi, e quindi di altre persone che entrano in terapia con lui e a causa sua.

Per rendere il film divertente, la coppia di analisti si sposta materialmente seguendo il paziente in ogni momento, invece di farsi raccontare gli eventi da lui sul lettino. Ma per il resto si verificano, e vengono mostrate in modo piuttosto preciso, tutte le esperienze e i trucchetti che fanno parte normale della teoria e della pratica di un’analisi, dalle menzogne inconsciamente volontarie ai lapsus rivelatori (mitico, ma tipico, il ragazzo perfettino che messo di fronte alle proprie protezioni e alla propria mancanza di spontaneità, e non capendo perchè si senta improvvisamente così diverso dal solito, si chiede “Come mai non sono me stesso?” – anche se nel doppiaggio la brutta traduzione dell’originale “How am I not myself?” è “Come non essere me”); dalle visualizzazioni guidate all’esame condiviso di fantasie e sogni; dall’introduzione di un alter ego o di un doppio (che nella terapia solitamente è inventato dall’analista, anche se viene presentato come persona reale; difatti mi sarei aspettato che nel film l’alter ego si rivelasse immaginario) fino alla visita ai genitori, con relativa scoperta del trauma infantile; e persino al passaggio per sfiducia a un analista concorrente, cosa che succede nella realtà a non pochi pazienti.

Naturalmente, come sempre accade, la psicanalisi, rendendo le persone consapevoli di ciò che sono e di come siano diverse da come pensavano, finirà per cambiare in modo improvviso, radicale e soltanto apparentemente involontario le loro vite… e anche gli analisti finiranno per essere per un attimo analizzati e quindi cambiati, visto che anche alle persone si applica il principio di indeterminazione di Heisenberg, per cui non si può osservare troppo in dettaglio la psiche di un altro senza esserne per questo influenzati.

Al di là di tutto, questo è un film divertente e che potrebbe farvi riflettere, quindi guardatelo; ma se ciò che vi affascina è il genere di rivelazioni sulla vera natura delle persone contenuto in questo film, specie se applicato a voi stessi, vi consiglierei di cominciare a racimolare i soldi per andare in analisi.

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sabato 23 Settembre 2006, 08:23

La pillola rossa

In questi giorni, in Ungheria, si è sfiorata la rivoluzione di piazza; tre giorni fa, per dire, gruppi di esagitati hanno occupato e dato parzialmente alle fiamme il palazzo della televisione di Stato, che ha dovuto interrompere i programmi per un po’.

La causa della rivolta è stata la trasmissione da parte di una radio di una registrazione rubata in cui l’attuale Presidente del Consiglio, il miliardario socialista Gyurcsany, ammetteva candidamente di avere mentito su tutta la linea a proposito dei risultati del proprio governo, durante la campagna elettorale che gli ha garantito la rielezione questo aprile.

Bene, a me quello che stupisce di questa protesta è il presunto candore – presunto perchè chiaramente organizzata o perlomeno cavalcata dall’opposizione politica, con il coinvolgimento di agitatori di professione e persino degli ultras delle locali squadre di calcio (vi ricorda qualcosa? Ucraina, Georgia, fondi americani? ok, ne parleremo un’altra volta).

Insomma, veramente esiste qualcuno, nella società moderna, che pensa che i politici non mentano, quotidianamente, ordinariamente, “professionalmente” come parte del proprio lavoro?

Venendo all’Italia, è credibile che davvero Prodi non sapesse nulla dei piani di Tronchetti Provera sul futuro di Telecom, discussi o suggeriti dal suo braccio destro? E Tronchetti Provera davvero si è dimesso senza sapere nulla del fatto che di lì a poco sarebbe scoppiato lo scandalo delle intercettazioni? Scandalo che naturalmente è solo una pura coincidenza, e non ha alcun collegamento con lo scontro politico ed economico in atto per il controllo della principale azienda di telecomunicazioni (e centro di sorveglianza) d’Italia?

Naturalmente questo è solo un esempio; quante palle conclamate ed autoevidenti, o comunque ben presto svelate, ha detto Berlusconi? E Bush, sulle armi in Iraq e sull’11 settembre tanto per iniziare?

Qualche volta uno ci potrebbe anche credere, ma in certi casi è totalmente evidente a qualsiasi persona dotata di raziocinio che quello che ci viene fatto sapere è un gentile abbellimento della realtà, quando non una pillola blu vera e propria. Allora, che cosa è successo di speciale in Ungheria?

Probabilmente quello che succede è un fenomeno di rimozione collettiva. Sappiamo tutti che ci stanno prendendo per i fondelli, ma abbiamo già talmente tanti problemi da affrontare nel nostro piccolo che preferiamo mettere quelli di grandi dimensioni da parte. Poi, però, ipocritamente, quando ci spiattellano la verità così chiaramente sotto gli occhi non possiamo fare più finta di niente; e allora ci incazziamo, e mandiamo al rogo quello dei tanti mentitori che è stato così fesso (o così bellamente inchiappettato dai suoi compari) da venire sputtanato in pubblico. Anzi, la reazione è forse ancora più violenta, perchè dobbiamo sfogare la frustrazione di tutte le altre volte in cui ci hanno chiaramente preso per i fondelli senza che dicessimo nulla.

L’aspetto sinistro, però, è il fatto che forse non proprio tutte le bugie vengono dette per nuocerci. Per dire, quanti di noi avrebbero accettato il passaggio all’euro – una tappa inevitabile per la costruzione politica di una Europa capace di contare a livello mondiale, e probabilmente anche, nel lungo termine, di un mondo equilibrato e pacifico invece che succube dell’Impero Americano – se ci avessero detto chiaramente che ci sarebbe costato una inflazione reale del 50% nei primi tre anni? E se su questo argomento non avessimo tutti più o meno fatto finta di niente, accettando le cifre chiaramente taroccate di Berlusconi invece che quelle veramente sperimentate sulla nostra pelle, cosa sarebbe successo nelle nostre piazze?

Pensate solo a tutte le volte in cui bisogna costruire una infrastruttura necessaria ma sgradevole. A un chilometro da casa mia c’è il CPT di Torino, il centro di detenzione per i clandestini in via di accertamento, che si potè costruire solo raccontando ai residenti la chiara menzogna che sarebbe rimasto lì solo per un paio d’anni, il tempo di farne uno vero altrove; sono passati dieci anni ed è ancora lì, anzi lo vogliono espandere. Eppure, il CPT, almeno finchè non cambia la legge, da qualche parte si doveva fare; probabilmente sarebbe stato impossibile realizzarlo, senza raccontare bugie.

Io, personalmente, scelgo sempre la pillola rossa, quella che ti mette davanti alla dura verità, e non giustifico i politici che mentono troppo facilmente. Ma non sono sicuro che la società italiana sia sempre e comunque pronta per questo; e anzi credo che molti di noi, più o meno coscientemente, demandino ai politici proprio il compito di nascondere le verità meno gradevoli, magari per poi fare da capro espiatorio quando non potremo proprio più far finta di non vedere.

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venerdì 22 Settembre 2006, 14:47

Sarò licenziato per questo

Chi mi conosce più da vicino sa che io e il mio socio abbiamo alcune, ehm, lievi divergenze sulla concezione dei rapporti lavorativi all’interno di una azienda moderna.

Una delle cause di discussione più frequenti in questi ultimi mesi è stata la legittimità del fatto che io blogghi in orario d’ufficio. Per me è del tutto normale che una persona con un ruolo di dirigente (ma anche un normale tecnico, se la cosa non degenera) abbia una allocazione flessibile del proprio tempo, che include una certa percentuale di tempo dedicata ad attività pubbliche o all’autoapprendimento; questo tanto più se non è assunta ma è retribuita in forma di consulente. Al contrario, per un manager che viene dal marketing il fatto di spendere anche solo dieci minuti sul proprio blog tra le 9 e le 18 è non solo un tradimento del proprio dovere di buon lavoratore, ma addirittura potenzialmente una giusta causa di licenziamento o di rottura del contratto.

La discussione è interessante: come cambiano i diritti degli individui in un mondo del lavoro flessibile? La flessibilità va solo a danno del dipendente, o ci sono anche forme di flessibilità vantaggiose, come quella di poter fare ciò che si vuole del proprio tempo purchè si raggiungano gli obiettivi? Per tutti noi che svolgiamo di fatto un lavoro dipendente, a progetto o in partita IVA, senza essere assunti, fino a dove l’azienda ha diritto di pretendere il rispetto di un orario e di mansioni definite in modo “classico”? E se l’azienda lo fa, non dimostra intrinsecamente di nascondere un rapporto di tipo subordinato sotto la forma (detassata) della consulenza?

Io, come sapete, non sono affatto legato alle tradizionali forme di rapporto lavorativo, che considero anzi obsolete in moltissimi casi, e persino inique verso tutti quelli che, nella mia generazione, sono poi costretti a lavorare in modo totalmente precario per permetterne la sopravvivenza. Allo stesso tempo, trovo che la flessibilità debba valere in entrambe le direzioni; se un’azienda non vuole concedertela, può sempre assumerti.

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venerdì 22 Settembre 2006, 14:18

Regole

So perfettamente quanto siano fondamentali le regole per la convivenza civile, ma è anche vero che il rispetto delle regole in modo ossessivo e privo di eccezioni è talmente insensato da coincidere con la definizione di un disturbo mentale (nevrosi).

Per cui, è vero, tecnicamente ero io in fallo; ma saremo più stronzi io e le altre quattro persone davanti o dietro a me che, dovendo andare per cinque minuti nei negozi di una via situata al centro di una zona totalmente imparcheggiabile, invece di spuzzonire il mondo per mezz’ora girando avanti e indietro senza speranza, si sono piazzate in doppia fila a bordo strada; o tu che ti infili con un grosso camion nel cuore di San Salvario e ti incazzi pure se trovi degli ostacoli?

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giovedì 21 Settembre 2006, 22:28

[[Radiohead – There There]]

Avevo promesso di eliminare completamente dalla mia discografia la musica depressiva: basta Muse, basta Radiohead, basta tutti quei pezzi cattivi che parlano di follia e tristezza. Ma poi stasera è bastata una conversazione a distanza per buttarmi giù di morale, e quindi ecco un pezzo che è talmente un capolavoro che all’epoca lo sentii distrattamente sì e no tre volte, eppure stasera mi è venuto subito fuori dritto dal fondo del cervello. Parla di solipsismo e del caso disastroso che ci aspetta e di come il seguire i propri sentimenti (che non sempre corrispondono alla realtà) porti invariabilmente al disastro.

Buona serata; per stasera chiudo andando a suonare Karma Police al piano, ma poi ci risentiamo domani mattina di buon umore.

In pitch dark I go walking in your landscape
Broken branches trip me as I speak
Just ‘cause you feel it, doesn’t mean it’s there
Just ‘cause you feel it, doesn’t mean it’s there

There’s always a siren
Singing you to shipwreck
(Don’t reach out, don’t reach out
Don’t reach out, don’t reach out)
Steer away from these rocks
We’d be a walking disaster
(Don’t reach out, don’t reach out
Don’t reach out, don’t reach out)

Just cause you feel it, doesn’t mean it’s there
(There’s someone on your shoulder)
(There’s someone on your shoulder)
Just cause you feel it, doesn’t mean it’s there
(There’s someone on your shoulder)
(There’s someone on your shoulder)
There there!

Why so green and lonely?
And lonely, and lonely, and lonely
Heaven sent you to me
To me, to me, to me

We are accidents
Waiting, waiting to happen
We are accidents
Waiting, waiting to happen

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giovedì 21 Settembre 2006, 11:47

Guido Rossi e il signor Rossi

Mi spiace, per via del mio orgoglio di cronista non professionista, di aver tenuto questo post mezzo scritto nel cassetto per quasi due mesi. Perchè sparare su Guido Rossi ormai è diventato di moda, ma io ne parlo male in tutti i luoghi appropriati (il forum apposito di Toronews, ovviamente) da almeno due mesi.

Perchè, diciamocelo, Guido Rossi è il peggiore di tutti.

Carraro, Matarrese, Moggi sono lo specchio della classe dirigente italiana di questi due decenni, arrivati al potere galleggiando e scambiando favori, cavalcando un partito qualsiasi purchè avesse poltrone da distribuire, o meglio ancora cavalcandoli tutti; ma non fingono di essere differenti da ciò che sono. Rossi, invece, ci è stato presentato come il diverso: banchiere internazionale però comunista, duro coi furfanti ma dal cuore d’oro, efficiente alla milanese ma politicamente abile alla romana, un superman delle emergenze da richiamare dalla pensione per i casi difficili.

E allora, giudichiamolo dai fatti: arriva facendo proclami di onestà e cambiamento e rigore a destra e a manca. Una settimana dopo è già nel ritiro della Nazionale a indossare la maglia numero 10 e a farsi fotografare. Poi fa una serie di nomine (Borrelli ecc.) badando essenzialmente a che siano spettacolari e finiscano sui giornali. Se le cose da fare non vanno almeno in quinta pagina sui quotidiani nazionali, se ne frega e non le fa: la serie C e tutti i campionati dilettantistici sono stati nel caos fino all’ultimo perchè il signor Rossi non si decideva a deliberare sui ripescaggi delle serie minori.

Quando alla fine tutto ha iniziato ad andare in vacca, con le sentenze medie di nonno Ruperto e soprattutto con le sentenze alla “volemose bbene” di Sandulli, Rossi sparisce e sta zitto. Avrebbe poteri straordinari, può commissariare la Lega e invece ci lascia arrivare Matarrese. Riemerge subito dopo la frittata di questa nomina, e invece di fare il possibile per evitare lo sbraco completo, pensa solo ad andare a dissociarsi sui giornali per salvarsi la faccia; e già che c’è, compie l’unico atto concreto di tutta la sua gestione, assegnare uno scudetto ridicolo alla sua squadra del cuore, uno scudetto presunto di cui tutte le tifoserie d’Italia ridono e rideranno nei secoli, festeggiato (dice la leggenda) in piazza Duomo da un solitario Massimo Moratti con bandiere che si fa i cori da solo, preso per scemo da chiunque passasse di là.

E poi, mentre invade i giornali lamentando complotti alle sue spalle e disonestà altrui, di nascosto si cerca un nuovo lavoro, e lo trova anche: presidente del gruppo a cui ha appena regalato lo scudetto. Ma naturalmente, lui, da uomo di sinistra, di rigore e tutto d’un pezzo, non ha mai parteggiato per nessuno.

Ha persino la faccia tosta di cercare di restare al suo posto (si sa, all’Inter di spintarelle ne servono in continuazione), mentre il campionato riparte come era finito: alla penultima giornata dell’anno scorso la Juve in crisi di fiato vince 3-0 in casa del Siena imbottito di suoi scarti, alla terza di quest’anno la Juve in crisi di fiducia – pur l’unica rimasta col cerino in mano nelle sentenze vergogna – vince 3-0 in casa del Crotone imbottito di suoi scarti. Ma naturalmente queste squadre hanno lottato alla morte, nel più sincero spirito sportivo, e non si sono fatte influenzare dalle alleanze strategiche di lunga data!

Dai maneggioni del calcio non ci si poteva aspettare altro; da Guido Rossi si poteva pretendere molto di più. La responsabilità principale è sua e di chi l’ha messo lì (Petrucci, Melandri e Prodi) per poi perdere il controllo della situazione. Anche se a questo punto è evidente come abbiano anche loro perlomeno accettato, se non disegnato, questo risultato; e vista col senno di poi, la proposta che fece Prodi nei primissimi giorni dello scandalo, quella di mettere come commissario Gianni Letta, assume una luce davvero sinistra. Probabilmente in quei giorni s’è giocato un derby milanese a livello politico, per determinare chi sarebbe uscito vincitore dallo scandalo.

Chiudo dicendo che il fatto che il mondo politico permetta questo sfascio è il segno di quanta poca stima abbiano i nostri politici di noi italiani. Danno per scontato che, siccome si tratta di calcio, in fondo ci importi più di salvare lo spettacolo (e, per i tifosi, le loro squadre) che dell’onestà e dei valori base della convivenza civile, e che quindi ci sarebbe stata più gente incazzata di fronte a condanne serie, che di fronte al colpo di spugna.

A prima vista – leggendo ad esempio le reazioni della curva viola, giunta a santificare Della Valle anche di fronte alla piena confessione in diretta TV che rilasciò da Mentana – vien da pensare che forse hanno ragione loro. Eppure, a parte un manipolo di ultrà delle squadre coinvolte, io non ho sentito nessuno che non sia stato disgustato nel profondo da tutta la vicenda.

Molti commentatori sui giornali sostengono, con facile battuta, che Guido Rossi è il signor Rossi, e riflette precisamente l’italiano medio. Probabilmente è perchè vengo da una generazione diversa rispetto all’editorialista italiano tipico, ma a me sembra che rifletta soltanto l’Italia becera e ipocrita che ci ha rovinati, e di cui aspiro a liberarmi con metodi naturali: aspettando che, finalmente, la natura faccia il proprio corso. Se non fosse che, purtroppo, tutti questi signori stanno già piazzando qua e là i propri figli.

P.S. Per gli amanti del mal di fegato, ecco un’altra notizia: lo iettatore biondo Balzaretti, intervistato ieri in diretta a Controcampo, ha detto tranquillamente che loro sono sicuri di essere già in cima alla classifica, perchè c’è stato un accordo sottobanco con la Federazione per scontare la penalizzazione in cambio del mancato ricorso al Tar. Ecco, lo sapevamo tutti, ma almeno quel minimo pudore di non ammettere i maneggi illegali in televisione…

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mercoledì 20 Settembre 2006, 19:19

A testa bassa

Non so da dove venga questo ritaglio che mi hanno girato in una delle infinite catene di mail che intasano la mia casella, ma, come per gli sfottò dei gobbi dopo Crotone, è difficile reagire in altro modo che chinando la testa:

Caro elettore di sinistra

Lo dico davvero a malincuore, ma dopo la devastante performance di questi primi mesi potrebbe davvero essere il caso di ritirare fuori le magliette con la scritta “IO SONO UN COGLIONE” che alcuni di noi indossavano orgogliosamente in campagna elettorale… e di indossarle con un altro spirito.

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mercoledì 20 Settembre 2006, 02:29

Pearl Jam, lo spettacolo del rock!

Questa sera a Torino, nel nuovo Palaisozaki (ma trovargli un nome no? casa mia mica la chiamo col nome dell’architetto), suonava uno dei gruppi storici della mia adolescenza, i Pearl Jam; una band che per qualche anno, diciamo la prima metà dei ’90, fu sul tetto del mondo del rock, e che poi sprofondò in una serie di dischi sempre più anonimi, finchè la persi quasi di vista.

Avevo sentito i due singoli del nuovo disco in radio, e mi erano piaciuti molto; eppure, fino a pochi giorni fa non sapevo nemmeno se andare. Mi ero appuntato la data, e mio zio mi aveva incuriosito offrendomi un biglietto per il parterre. Alla fine, mi sono messo d’accordo con un amico, ma avendo deciso che siamo troppo vecchi abbiamo optato per i posti a sedere, comprati via Internet, sperando che fossero decenti (non c’era nemmeno una piantina).

La serata non inizia affatto bene; arrivo verso le 20,15 e tutto intorno alla zona olimpica è il caos. Mi reco a colpo sicuro a parcheggiare nel piazzale sterrato appena costruito come parcheggio dello stadio, e scopro che è incredibilmente sbarrato! Così mi tocca la banchina del controviale di corso Galileo Ferraris, e un discreto pezzo a piedi. Intorno ci sono le auto più varie: un discreto numero con targa francese, e altre ancora meno spiegabili (un taxi di Aulla?!?).

All’ingresso, ci sono tonnellate di bancarelle di magliette, ma solo due paninari, ovviamente presi d’assalto (il Comune sta cercando di sterminarli, e non si capisce perchè). E poi, c’è una sola biglietteria per tutto, residui, ritiro biglietti Internet, accrediti stampa… ovviamente c’è una fila enorme, che però si rivela piuttosto veloce.

Entriamo, e dentro è il caos; ci sarà una decina di migliaia di persone che ha il posto numerato, e non c’è praticamente alcun cartello per indicare i settori, se non delle decalcomanie appese nei posti meno visibili che si potessero immaginare. L’unico modo è chiedere agli steward, alcuni gentili, altri che non gliene può fregare di meno.

Arriviamo al nostro posto (secondo anello, settore 303) alle 21 in punto, e, orrore, è una vera piccionaia! Sembra il terzo anello del Delle Alpi, con il palco piccino picciò, e perdipiù coperto in parte da una barriera di plexiglass trasparente, ma solo in teoria. E’ la moda olimpica torinese: posti tutti a sedere ma da cui non si vede niente, perchè le barriere di plexiglass, i montanti di alluminio, i parapetti azzurrati, ai fini del calcolo delle visibilità vengono equiparati al vuoto, come se non ci fossero. Che il tutto funzioni lo crede solo Chiamparino.

Del resto, la scarsa visibilità comincia a esserci impedita da quelli che, ovviamente, si alzano e vanno ad affacciarsi al parapetto. Dovrebbero stare seduti, ma d’altra parte, signori, s’è mai visto un concerto rock dove la gente sta zitta e seduta, perdipiù in un posto dove si vede pochino? Ma chi le pensa queste strutture, un vecchio sessantenne che va a vedere solo Orietta Berti? Davanti a noi una famigliola insiste nello stare seduta ai propri posti e nel prendere a urlacci tutte le coppie di fighetti che gli si piazzano davanti, scambiando con loro risate di scherno, vaffanculi e insulti vari. Non scatta la rissa solo perchè la più accesa è una signora; il raro steward passa e fa finta di non vedere, direi che anche a lui frega solo di vedere il concerto.

Il quale concerto inizia puntualissimo, alle 21,05, cogliendo tutti di sorpresa; e la situazione peggiora. I Pearl Jam attaccano con qualche pezzo classico, tra cui Animal e Elderly Woman Behind The Counter…, ma è un disastro: sembra di sentire una radiolina messa di fronte a un muro di cemento, con un riverbero infinito. L’acustica, insomma, è orrenda, la visibilità è ridicola e sto per metterci una croce sopra: Palaisozaki mai; come l’Olimpico, tanto bello ma totalmente inadatto per quello per cui sarebbe stato costruito, un vero spreco di soldi pubblici.

Io e Andrea pensiamo già a come far causa per farci ridare i soldi, quando, tentare per tentare, decidiamo di provare ad andare in un altro settore. Basta già andare nella metà inferiore del secondo anello – quella in cui i numeri di settore iniziano per 2 – perchè le cose cambino nettamente. Lì, intanto, si è tutti in piedi (nonostante la teoria dei posti a sedere) e non ci sono scazzi; in questo modo, si può almeno cantare e ballare. Poi la gente è rada, perchè molti si sono spostati in basso, e si trova posto senza sgomitare. E comunque, la visibilità è buona, e anche l’acustica, probabilmente grazie anche a qualche aggiustamento dal mixer, migliora notevolmente.

E così, comincia il vero concerto; proprio durante il trasloco Eddie Vedder legge un testo in pseudoitaliano, per spiegare che “in tempi di guerra, cantiamo parole di pace”. Attaccano quindi con i due singoli del nuovo disco, prima Life Wasted e poi World Wide Suicide; questo secondo, con mia sorpresa, mi esce fuori a memoria e lo canto tutto – ma sono le melodie vocali di Eddie ad essere straordinarie e a scolpirsi da sole in testa, con quella voce che ti riempirebbe di brividi anche se cantasse il bugiardino del Maalox.

Il gran tiro mi esalta e finisco già la voce, ma per fortuna i PJ vanno avanti e fanno quello che, direi, è l’ultimo disco (che non ho mai sentito) per intero o quasi. Temo la noia e invece queste canzoni, pur al primo ascolto, sembrano una più bella dell’altra. Certo, la gente non le sa, e solo un paio di manipoli di scatenati le cantano, in cima al parterre; ma l’atmosfera è bella, raccolta, con delle belle luci di coreografia, e si fa molto apprezzare. Passa un’oretta, e ne esco – oltre che rappacificato con l’Isozaki, che anzi sfoggia un bel colpo d’occhio e una ottima acustica nei pezzi meno rumorosi – voglioso di comprare il nuovo disco.

Poi, però, ci fanno capire di avere un po’ scherzato, e attaccano i pezzi vecchi; e il concerto si trasforma. Fanno Do The Evolution per scaldarsi, ma la vera svolta è quando attaccano Rearviewmirror, uno dei superclassici della mia adolescenza, che ho cantato e suonato da solo e in gruppo in tutti i modi e tutte le versioni possibili. Lo attaccano alla velocità della luce, quasi hardcore, con una chitarra anfetaminica costretta nevroticamente in un reticolo di pennate, che costruisce il riff ossessivo sotto la voce di Eddie.

In platea la cantano quasi tutti, ma il primo miracolo della serata deve ancora venire. La canzone ha una parte centrale – una manciatina di battute, sul disco – in cui rallenta di colpo, e diventa quasi una pila; dove l’energia si accumula in una sacca di sospensione per poi esplodere nel finale. Bene, qui tutto il palazzo è l’accumulatore, ed è l’energia dei nostri movimenti, contorti sotto una luce blu, ad impilarsi. Ma poi, invece di esplodere, loro rallentano, scemano, e vanno avanti per diversi minuti a guardarsi, improvvisare, fare assoli in questo ritmo che è foriero di attesa e di tensione insieme, come una delle infinite “scene prima del duello” che citavo giorni fa parlando di Sergio Leone. E quindi respiro, stacco la spina, resto sorpreso e un po’ sperso, e mi chiedo dove vogliono andare a parare, se attaccheranno qualcos’altro, se finirà così; e nel frattempo, piano piano, impercettibilmente, loro ricominciano ad accumulare e poi di botto attaccano, in un tripudio che scuote il palazzo, la parte finale, a velocità ancora più supersonica, “saw things, saw things, clearer, clearer, once you were in my rearviewmirror”, con quella scivolata subito dopo che sembra uno scordamento improvviso della tonalità, e un finale devastante, in cui loro pestano, tutti urlano e fanno i cori, e sembra un sacrificio umano e una rivolta di piazza contro la condizione esistenziale degli esseri umani, e bisognerebbe spaccare le chitarre per poterci stare dietro. Dopo un’altalena di emozioni io non ne ho più, e quando la canzone si sblocca di botto mi risalgono su dallo stomaco quindici anni di vita, i flash uno dopo l’altro, chiari e ben visibili, di tutto quello che è rimasto indietro nello specchietto; rischio seriamente il collasso psicoemotivo per improvviso vomito mentale. E difatti, dopo l’accordo finale, loro scappano esausti dietro le quinte per l’intervallo, e io quasi mi accascio sulle poltroncine.

Cinque minuti e la band è di nuovo sul palco; ora si fa sul serio. Questa musica mi riporta dritto ai miei terribili sedici anni, alla prima volta che sentii i Pearl Jam, presentati da Radio Rai come “una delle maggiori promesse dell’anno, segnalati come sicuro successo dalla Sony; era una sera in macchina all’inizio di corso Allamano, sul postale guidato da mio padre con cui io e mio fratello subivamo, quali pacchi, l’ordinaria riconsegna settimanale da un genitore all’altro. Non sono mai bei ricordi, l’adolescenza è tormentata di suo e la mia lo è stata probabilmente più della media; questo forse spiega come il trasporto emotivo di stasera sia prevalentemente sofferente.

Il concerto ricomincia con Jeremy, e anche qui è tutto un flashback. Quel video che durò un anno su tutti gli schermi fece il successo della band, con la sua storia violenta e malata che viene ricantata ora a memoria da quasi tutto il pubblico. Dopo il breve intermezzo di Lukin si torna ai classici, stavolta Better Man, una canzone struggente e anche l’unico singolo orecchiabile di Vitalogy, un disco per il resto duro e alienato, da veri nerd sospesi tra il tentato suicidio e la follia definitiva (resta tuttora il mio preferito). Ma Better Man è facile, inizia piano e poi si lancia a tutto vapore, e Eddie fa cantare due strofe al pubblico, che risponde subito, “she dreams in color she dreams in red, can’t find a better man”.

Penso che non si possa andare oltre, e invece, a sorpresa, arriva anche di meglio: attaccano Black, una canzone che sta nelle mie radici; quando suonavo in un gruppo, difatti, la facevamo sempre, ed era uno dei nostri pezzi più forti. E anche se all’epoca non potevo ancora capire fino in fondo la disperazione di cui parla (“All the love gone bad / turned my world to black”), la conosco ancora nota per nota, le svisate di basso, i legati di voce e poi ancora il finale lunghissimo e arroccato su quel motivo in falsetto che cantavo io, proprio io, e che ora cantano in ventimila all’unisono. Anche a noi succedeva che il pubblico si unisse al falsetto ed andasse avanti a cantarlo da solo, ma qui, quando loro infine smettono di suonare, noi non vogliamo lasciar scappare questa emozione; per parecchi secondi il pubblico continua a cantare e battere le mani a ritmo mentre loro stessi guardano stupiti ed Eddie si inchina sul palco.

Tremor Christ è un altro pezzo del quadro di Vitalogy, e uno di quelli piuttosto oscuri; anche qui la conosco nota per nota, ma si vede che non è una favorita del pubblico. A questo punto quindi loro giocano l’asso e attaccano Alive, forse la loro canzone più famosa, il cui ritornello viene cantato in coro da tutti i presenti, non uno in meno, ed è un muro di voci che non ho mai sentito, nemmeno allo stadio quando si fa “La gente”; una sensazione davvero impressionante.

Anche questo è un gran finale, e difatti escono; ma poi tornano di nuovo e attaccano Blood, di cui viene esaltata l’anima funky, mentre l’urlato di Eddie parte a un volume pazzesco (mixeriiistaaaa!). Tutto il palazzo si fa rosso sangue, mentre a un certo punto, su una delle varie riesplosioni della canzone, Eddie fa un salto con spaccata altissimo, davvero incredibile; se qualcuno fosse riuscito a fermare in una foto proprio quell’attimo, sarebbe la foto del rock al suo massimo.

Segue Even Flow, anche questa attaccata a una velocità incredibile, quasi speedcore; e non è la fretta di finire, e nemmeno l’abitudine che porta sicuramente a velocizzare i pezzi suonati e risuonati, ma veramente una carica energetica che deve scaricarsi, e che esce in un ritmo frenetico, negli assoli, nelle pose e nelle corse avanti e indietro per il palco. Nel lungo pezzo centrale un platinato Mike McCready si spara un assolo pazzesco scendendo addirittura giù dal palco, e per risalire suona una nota lunga e gonfiata che tiene con una mano mentre con l’altra si arrampica, per poi riprendere il resto dell’assolo come niente fosse. E subito dopo, Matt Cameron si produce in un assolo di batteria, signori un assolo di batteria nel 2006, ed è straordinario, mica una palla unica come buona parte di quelli di quando l’assolo di batteria era obbligatorio per legge.

Finisce che loro sono visibilmente contenti, e il pubblico è in delirio; potremmo andare avanti tutta la sera, a catarsi adolescenziali e cori generali, con grande soddisfazione. Eddie promette che non passeranno altri sei anni prima del prossimo tour europeo, e io penso che sono talmente preso da questo concerto che se domani non giocasse il Toro potrei andare fino a Pistoia per risentirli.

Nel frattempo, però, attaccano Baba O’Riley degli Who, e io immagino mio zio, grande fan dei mezzi morti e mezzi quasi, in delirio là in basso nel parterre. Ok, è un bel pezzo, grazie, Eddie salta e si dimena in tutti i modi possibili, e nel frattempo accendono le luci e ci accingiamo ad andare… quando d’improvviso sul palco compare un contrabbasso elettrico e, a sorpresa, ci regalano ancora Indifference. Detto tra noi, la suonano maluccio, ma non importa; che emozione risentire il pezzo simbolo della depressione adolescenziale e post-adolescenziale, la canzone che ha inculcato in milioni di giovani di tutto il mondo un progetto di vita come questo:

Oh, I will stand arms outstretched, pretend I’m free to roam
Oh, I will make my way through one more day in hell…
I will hold the candle till it burns up my arm
Oh, I’ll keep takin punches until their will grows tired
Oh, I will stare the sun down until my eyes go blind…
I’ll swallow poison until I grow immune
I will scream my lungs out till it fills this room
How much difference
How much difference
How much difference does it make
How much difference does it make

Negli anni l’ho ascoltata in vasche da bagno di acqua ormai gelida, nella mia stanza con le luci rigorosamente spente, persino da ubriaco: ah, quanta depressione gratuita! In effetti dovrei fargli causa, ma stavolta la fanno con tutte le luci del palazzo accese, e la canzone diventa innocua, più un “come eravamo quando tu avevi la metà dei tuoi anni” che una vera minaccia.

Infine, il concerto si chiude davvero, con loro che si stringono e si abbracciano sul palco davanti a un meritatissimo, lunghissimo applauso.

Ho la sensazione che i Pearl Jam siano finalmente usciti dal tunnel, e siano diventati un gruppo maturo; che, anche come persone, abbiano superato le proprie disavventure e infelicità per diventare quarantenni solidi e adulti. E che quindi, come altri gruppi di spessore, siano pronti per regalarci altri dieci o vent’anni di buona musica, magari non più geniale, ma sempre di gran classe.

Se poi dal vivo continueranno a regalare serate come questa… che concerto, ragazzi! Onestamente non ne ho visti molti con questa energia e questa emozione, anzi forse non ne ho visto nessun altro! Dopo un concerto ROCK come questo, con la R la O la C e la K maiuscole, sarebbe da andare a scolarsi una bottiglia di Jack Daniel’s dal manico della chitarra, e che diavolo! In onore dei bei vecchi tempi in cui si è giovani e, con l’anima disperata e utopica del rock, si pensa di poter cambiare il mondo o in alternativa autodistruggersi prima di dovercisi adeguare, e poi invece non succede nè l’una nè l’altra cosa e ci si ritrova un po’ più delusi e cinici di prima, ma in fondo più sereni, e sempre pronti a roccheggiare quando ce n’è l’occasione. Sono carichissimo, ma mi bastano un paio di sorpassi alla GT4 in mezzo al traffico (che cazzo ti fai i fari, vecchio amante del liscio, con quella Panda di merda piantata a due all’ora in mezzo al corso!) per liberare l’energia senza danno alcuno. Lunga vita al rock’n’roll!

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martedì 19 Settembre 2006, 19:48

Poesia a piene mani

Sicuramente conoscete Vincenzo Mollica, il “giornalista” che per qualche non tanto oscuro motivo ha in appalto l’intera sezione culturale dei telegiornali Rai, svolta a botte di complimenti a tutti e spudorate promozioni di libri e spettacoli di amici e parenti tramite il servizio pubblico.

Bene, stasera al TG3 il poeta della valle Caudina ha superato se stesso: dovendo presentare l’ultimo disco dell'”amico” Zucchero (che dal canto suo cerca disperatamente di fare il Santana de noantri, solo senza saper suonare), intitolato Fly, ha terminato il suo infinito panegirico con il seguente geniale, originale, emozionante slogan: “Con Fly, si vola!”.

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martedì 19 Settembre 2006, 18:10

La Stampa libera

Stamattina ho assistito alla maggior parte di questo convegno, organizzato da La Stampa per annunciare la decisione di rilasciare sotto licenza Creative Commons i supplementi Tuttolibri e Tuttoscienze.

Innanzi tutto, la decisione è ottima; per i pochi che non li conoscono, si tratta di due supplementi che da una quindicina d’anni parlano rispettivamente di libri, musica, teatro e cultura in genere, e di scienza e tecnologia, ospitando interventi e articoli veramente di livello. Come confermato informalmente sul luogo, pare che la decisione riguardi non solo il futuro, ma anche tutti gli arretrati, che fino ad oggi La Stampa vendeva su appositi CD. Si tratta del primo caso in Europa, tra i quotidiani, e segna certamente una pietra miliare nella diffusione di questo tipo di modelli distributivi all’interno della carta stampata; complimenti quindi sia al team di Creative Commons Italia, che immagino abbia spinto l’idea, sia ai vari responsabili della Stampa.

Per quanto riguarda l’evento, io sono ovviamente arrivato in ritardo – volevo andare in bici, ma mi sono alzato troppo tardi, e poi parcheggiare in zona Castello del Valentino è stato comunque difficile. La sala del Castello è veramente eccezionale, merita andarci soltanto per l’atmosfera, con gli affreschi restaurati da poco e le finestre che danno sul Po!

Quando arrivo, sta parlando l’editore, John Elkann, persona di cui le conoscenze dirette mi dicono un gran bene, ma che ha un disperato bisogno di un corso di public speaking: in questo caso, vabbe’ che sono le nove e mezza, ma sta leggendo con aria assonnata un discorso prestampato, da un foglio tenuto a mano, alto e dritto in verticale, in modo quasi da coprire la faccia, con un mono-tono che, in termini culinari, equivarrebbe ad un bollito misto senza salse.

E’ decisamente più a proprio agio il direttore, Giulio Anselmi, che espone alcune considerazioni interessanti sull’intenzione della Stampa di costruire un ciclo di feedback tra il giornale stampato e il sito, chiedendo ai lettori di commentare sul sito articoli e notizie e riportandone poi sul giornale del giorno dopo un riassunto; pare che abbiano finalmente capito che non è affatto detto che Internet cannibalizzi i quotidiani, se i quotidiani non dormono.

Sul palco ci sono anche Carlo Olmo (preside di Architettura di cui ho buoni ricordi dai tempi in cui facevo il rappresentante al Poli), presumo in rappresentanza del Rettore Profumo, e Marco Ajmone Marsan, nientepopodimenoche il mio relatore della tesi di laurea, anche se presumo che fosse sul palco non a tale titolo ma in quanto Direttore dell’Istituto di Ingegneria dell’Informazione e altra roba (ci siamo capiti) del CNR, e al posto di Chiamparino. Ma quando arrivo hanno già parlato, mi spiace; ad ogni modo, tutto l’evento è filmato e distribuito liberamente qui.

Subito dopo, la moderatrice Anna Masera (con cui ho appena litigato in pubblico un paio di settimane fa, con gran rispetto s’intende) introduce il panel successivo. Il primo è Juan Carlos De Martin, professore del Poli e anima di Creative Commons in Italia, che fa una spiegazione eccellente, concisa ma chiara anche ai non addetti ai lavori, di cosa siano le licenze CC; la cosa lo appassiona e si vede. Segue Domenico Ioppolo, della Stampa; poi arriva il pezzo forte, cioè l’intervento di Stefano Rodotà.

La mia stima per il professore è nota, ma oggi sono assolutamente stupefatto: credo di essere una persona piuttosto addentro a questi temi e piuttosto avvezza alla riflessione innovativa per conto proprio, ma lui, in un intervento a braccio di mezz’oretta, riesce a darmi almeno una decina di spunti di riflessione e di connessioni interessanti. Ad esempio, è chiaro a tutti il problema del diritto all’oblio, ma il suo collegamento con l’importanza della facilità di pubblicazione libera creata da Internet, per cui invece di far cancellare o far rettificare si possono pubblicare in proprio informazioni aggiornate, è meno ovvio. Ed è davvero importante, come lui fa, far notare a questa platea di manager ed editori che il tema non è una contrapposizione ideologica tra chi vuole il diritto di condividere e chi vuole proteggere una proprietà, ma una discussione anche pratica su quale sia il modello distributivo che massimizza la creazione e la remunerazione dell’ingegno, in uno scenario di creazione di massa e immateriale. (Mi sono spiegato?)

Dopo Rodotà parte il coffee break, e quindi il momento delle chiacchiere; il break è lungo e quindi aggancio un po’ tutti, cominciando da Rodotà stesso (con cui devo organizzarmi per il nostro “comitato Nicolais, e già che ci sono gli dò la buona notizia: ad Atene si farà il workshop sulla Costituzione di Internet), e poi il giro dei libertari torinesi di Hipatia, fino a Pistoletto. Incrocio Andrea Glorioso con cui pianifichiamo un po’ di attività, e alla fine faccio anche a tempo a salutare i ragazzi dello streaming e pure Vittorio Pasteris. E riesco anche ad abboffarmi di paste secche! (La coda del caffè però risulta indomabile.)

Ho ancora mezz’oretta, che mi permette di ascoltare innanzi tutto Piero Bianucci, il direttore di Tuttoscienze e giornalista molto apprezzato, nonchè il promotore del primo sito della Stampa e, via via, di questa svolta di oggi. Prende la parola Pistoletto e ricorda una serie di punti importanti, fino a giungere alla sua concezione (che merita accurata riflessione) del “terzo paradiso”.

Poi tocca ad Angelo Raffaele Meo, che tira fuori le slide; saranno le stesse che ho già visto varie volte? Invece no, ce ne sono di nuove – memorabile quella con tre gigantesche morti nere con tanto di falce, con scritto sotto “liberalizzazione”, “privatizzazione” e “globalizzazione”, e con la conclusione “Questo mercato fa più morti della guerra” – e il discorso è ancora più convincente del solito; per quanto Meo sia un pelo troppo vetero-ideologico dal mio punto di vista, non solo non ho dubbi sulla sua conclusione – il sistema della proprietà intellettuale va ripensato – ma apprezzo la chiarezza con cui anticipa e vede certi fenomeni. Ottima la citazione del “fabbricatore personale”, un oggetto che potrebbe cambiare il mondo: mi fa venir voglia di lavorarci. L’intervento, insomma, è un successone, concluso da un lunghissimo applauso.

Sta per prendere la parola Marco Ricolfi, ma purtroppo devo fuggire per un appuntamento. Scappo e rinuncio al resto del convegno, anche se avrei volentieri preso la parola e dato il mio contributo con il mio classico intervento sul ruolo degli utenti (De Martin ha comunque già ricordato come dal 40 al 60 per cento degli utenti Internet, circa mezzo miliardo di persone, la usino anche per condividere propri contenuti).

Spero che prima o poi ci sarà una occasione di dibattere di questi temi in grande stile anche a Torino, ad esempio sul modello del WOS che si è svolto a Berlino in questo weekend; noto però con piacere che, anche grazie al tanto vituperato giornale cittadino, non siamo affatto così indietro come ci piace pensare. Anzi, chissà che, sull’onda di queste scelte, non sia proprio La Stampa a spingere la nascita di un altro evento di cartello a Torino.

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