Il mio intervento all’Hackmeeting è stato un successone; per quanto un meeting di smanettoni e antagonisti in una palazzina occupata non sia il tipico appuntamento in cui intervengo, ci vado sempre con molto piacere, e con la certezza di trovare persone che, pur avendo spesso idee politiche ben precise, pensano con la propria testa.
I giornali hanno parlato dell’evento in tono abbastanza neutro, quelli di sinistra anzi chiaramente a favore; non solo il Manifesto aveva una pagina quasi intera e un articolo di apertura di Arturo Di Corinto, ma l’Unità ha ospitato un articolo auto-scritto dalla comunità degli organizzatori mediante un wiki.
L’unico quotidiano a distinguersi è stato La Stampa – e devo dire che da buon sabaudo io alla Stampa sono affezionatissimo, oltre che abbonato, ma più passa il tempo e più si accumulano episodi a favore di quei miei amici che tutte le volte mi dicono “Ma tu ancora leggi La Stampa?!?”. Il mio giornale ha cominciato a parlare di Hackmeeting con uno spottone a tutta pagina al capo della sicurezza informatica della Guardia di Finanza, con tanto di foto e pubblicità del suo libro in uscita, giusto per mettere in chiaro che questi pericolosi alternativi andavano repressi con la forza e già che ci siete compratevi il libro.
Poi, per rafforzare il concetto, ha ospitato un articolo di Raoul Chiesa, il caso più noto in Italia di hacker divenuto professionista dell’anti-hacking, che spiegava con dovizia di dettagli di come non andasse all’hackmeeting perchè si tratta di un evento troppo politico, che come tale non rispecchia l’etica hacker; e di come preferisca invece volare qua e là da un meeting tedesco a uno di hacker malesiani, sempre parlando male di quelli italiani, s’intende.
Ora, lo ammetto, la cosa mi ha dato prontamente sui nervi; perchè io all’Hackmeeting ci sono andato, e ho trovato sì una palazzina occupata, uno striscione contro il fascismo, e un angolo con manifesti che parlavano di Genova (G8) e di CPT, argomenti che con l’hacking in sè c’entrano poco; ma ci sono entrato liberamente, e pur venendo da una cultura diversa da quella dei centri sociali ho fatto il mio intervento, parlando e sparlando di chiunque, e nessuno mi ha insultato o minacciato perchè, ad esempio, collaboro con istituzioni di vario genere.
Non mi piace in generale che si usino i giornali per sparlare di un evento libero e senza padroni, e soprattutto che lo si faccia senza nemmeno essere andati lì a vedere com’era dal vivo, solo sulla base di preconcetti (mi riferisco ai giornalisti, perchè Chiesa almeno a qualche hackmeeting c’è stato). In più, la cosa mi piace ancora meno quando io sono tra i relatori.
Questo detto, il problema che pone Chiesa è reale, e sono stato io stesso a sollevarlo in altre occasioni. Il movimento hacker nasce negli Stati Uniti, e nasce quindi con uno spirito assolutamente capitalista, libertario, individualista; la libertà del software è quella di farcisi i fatti propri, senza coordinarsi o prendere ordini da nessuno. Non c’è necessariamente un piano politico o una ideologia dietro lo sviluppo di software libero o la diffusione della conoscenza, se non l’affermazione delle libertà individuali nei confronti di un mondo fatto di poteri centralizzati e sempre più forti.
E’ del tutto evidente, quindi, che l’etica hacker è tutt’altro che anticapitalista, anzi è l’esatto opposto del comunismo. Il comunismo, come le vecchie reti telefoniche, è un sistema in cui esiste una dirigenza centrale che pianifica, decide, organizza, e impone tutto a tutti. L’hacking, lo spirito di Internet, è decentrato e anarchico, è basato sul fatto che ognuno fa quello che vuole in piena autonomia, mettendo persone idee e progetti in concorrenza l’uno con l’altro; alla fine, il migliore viene scelto dalla quantità maggiore di utenti e quindi sopravvive.
In Italia, però, buona parte del movimento hacker nasce nell’ambito dell’estrema sinistra, e allora per molti hacking e occupazioni, hacking e lotta al sistema capitalista coincidono, sono la stessa cosa. E invece non lo sono, e questo va detto forte e chiaro; tanto è vero che il mondo è ormai pieno di “hacker imprenditori”, da John Gilmore a Joi Ito, categoria in cui io mi riconosco appieno e penso si riconosca anche Chiesa.
Allo stesso tempo, però, non si può negare che l’hacking contenga in sè principi di libertà che ne abilitano anche lo sfruttamento politico. Così come è sbagliato pensare che la conoscenza libera appartenga a una determinata ideologia, è sbagliato anche pensare che essa non debba essere usata per scopi politici di qualsiasi tipo. Compresi quelli meno ovvi, visto che una volta chiesero a Richard Stallman se lui avesse qualche problema col fatto che il software libero fosse usato per teleguidare dei missili, e lui rispose qualcosa come “No, perchè dovrei? E’ libero!”.
E quindi, mi sembra che non si possa impedire ai centri sociali d’Italia di definirsi hacker e di fare il proprio meeting in santa pace, nè contestare loro un abuso del termine o intimare un “cease and desist” a mo’ di major discografica. Mi sembra invece che la cosa giusta da fare sia contaminare in tutte le direzioni, moltiplicando le occasioni per influenzare reciprocamente le proprie idee, che è poi quello che mi spinge a partecipare, per quello che posso, in ambiti e ambienti così diversi l’uno dall’altro; perchè lo spirito hacker è quello di imparare sempre qualcosa di nuovo e di conoscere senza pregiudizi, e non può esserci conoscenza se si disprezza o anche solo si rifiuta l’incontro – e l’alleanza, per gli scopi che si condividono – con qualcuno di diverso da sè.
P.S. All’ora di pranzo sono anche andato sul sito della Stampa, al link riportato più sopra, per lasciare qualche commento; naturalmente, cinque ore dopo, nessuno dei miei post è ancora stato pubblicato. Ma saranno semplicemente in vacanza, eh.