Morti bianche e coscienze da pulire
Dopo l’ennesima tragedia sul lavoro, si è riaperta la bagarre sui media e nel mondo politico: bisogna assolutamente fare qualcosa. Naturalmente la soluzione è “ovvia” a tutti: servono più regole – evidentemente non ce ne sono abbastanza – e naturalmente sanzioni durissime per le imprese; anche perché siamo a un mese dalle elezioni, e gli operai votano, mentre le imprese no. E’ il solito giochetto ipocrita in cui ai vari partecipanti nella recita non potrebbe importare di meno degli operai; bisogna soltanto pulirsi la coscienza e mettersi in luce sui giornali.
Peccato che, a fronte di aziende che appaiono già a prima vista scientemente colpevoli di mancata prevenzione come la Thyssen-Krupp, la maggior parte dei casi di morte bianca riguardi quel mondo polverizzato delle microimprese che è così tipico dell’Italia; e quindi, il fantoccio del manager cattivo che sfreccia sul suo Cayenne sghignazzando alle spalle dei poveri operai è un po’ più difficile da trovare, e anzi si giunge alla conclusione sconsolata del procuratore di Molfetta che allarga le braccia e dice che il colpevole era lì sottomano, peccato che sia morto anche lui nell’incidente.
Il concetto di “sicurezza” è semplice in apparenza, ma difficile da definire: è profondamente personale e anche profondamente culturale. Del resto, queste sono foto che ho scattato io a Pechino tre mesi fa:
Da noi, un cantiere dove l’impalcatura non ha nemmeno le assi, e gli operai camminano tranquillamente sui tubi, se va bene imbragati ma più spesso no, non sarebbe comunque concepibile; là è la normalità .
In più, certi lavori sono pericolosi per definizione; si possono e si devono prendere tutte le precauzioni possibili, ma un pompiere o uno che svuota cisterne di gas velenoso sono sempre soggetti all’errore, quando non all’imponderabile. Non credo che il titolare dell’azienda di Molfetta, che si è calato nella cisterna cercando di salvare i propri operai ed è morto anche lui, possa aver coscientemente lesinato sul livello di sicurezza che doveva garantire se stesso; e quindi, se proprio non vogliamo rassegnarci a considerare le fatalità come fatalità , dobbiamo concentrarci non sulle regole e sulla ricerca di colpevoli, ma sul fatto che certi lavori, ancora oggi, vengono svolti – sia dall’operaio che dal padrone – con leggerezza, senza preparazione e senza una adeguata coscienza del pericolo.
Forse allora una adeguata formazione sui pericoli del proprio lavoro potrebbe fare molto di più dell’ennesima legge draconiana. In Italia, invece, l’idea per risolvere un qualsiasi problema – e potremmo parlare della privacy, o della nuova procedura per dimettersi, una magistrale esibizione di burocratismo anni ’70 – è di fare una legge dettagliatissima e durissima, che però si concentra sulla necessità di stendere un pezzo di carta, che guarda caso può essere steso soltanto da un “esperto” di qualche casta o da un ufficio pubblico previa riscossione della relativa tassa, la quale va ovviamente a carico dell’azienda perché, si sa, l’azienda è cattiva per principio e ancora grazie che non la chiudiamo del tutto. Come risultato, l’azienda paga, porta a casa 300 pagine di copia e incolla da infilare in fondo a un armadio, e continua a comportarsi esattamente come prima. E gli operai continueranno a morire.
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